Il Racconto della Domenica: Rivali in amore
di Giuseppe Moesch*
Non avevo ancora vent’anni, frequentavo il primo anno di Università, e credo che lei avesse più o meno la stessa età. Non ricordo il suo nome ricordo solo che era minuta, biondina, graziosa, svizzera francofona e aveva ricevuto una borsa di studio per svolgere un tirocinio alla Scuola Svizzera di Napoli, dove come ex alunno partecipavo ancora ad alcune manifestazioni e feste come San Nicola, o la festa del 1° agosto, festa nazionale elvetica o alle recite natalizie e di fine anno, quando ancora i miei fratelli più piccoli studiavano e si esibivano compunti recitando poesie in varie lingue, mandate rigorosamente a memoria. Era molto timida e me la presentarono con il preciso intento di crearle qualche contatto con la comunità napoletana; scambiammo qualche parola e ci ripromettemmo di rivederci nei giorni seguenti.
Abitava, come spesso capitava a una parte delle ragazze che all’epoca arrivavano sole dall’estero, in una sorta di pensionato tenuto nella zona della scuola, dalle monache francesi, se non erro appartenenti alla Compagnia delle Figlie della Carità. Era una comunità di origine francese fondata da San Vincenzo De’ Paoli nel 1633, detta anche delle suore cappellone per la vistosa, elegante ed alta cuffia inamidata mantenuta in vita fino a poco dopo il concilio Vaticano II. Nella stessa struttura abitava la professoressa di francese, una piccola donnina anziana, canuta leggermente curva, che poteva facilmente essere scambiata per una delle monache sia per l’abbigliamento che per la vita che conduceva, che assumeva quindi una sorta di sorveglianza nei confronti della fanciulla.
Erano quelli i primi anni di liberalizzazione dei costumi, prodromici del sessantotto, i giovani cominciavano a muoversi in Europa e d’estate le spiagge di Rimini e Riccione come di tutta la costa romagnola e veneta, pullulavano di giovani e meno giovani pronti a godere della vitalità italiana, anche se il fenomeno a Napoli era meno marcato e si concentrava solo a luglio e agosto nell’area dell’ostello della gioventù a Posillipo, mentre Capri e le altre isole erano ad appannaggio dei più ricchi.
C’erano state alcune occasioni ravvicinate di incontro e la mia nuova amica dimostrò una certa disponibilità nei miei confronti, probabilmente perché non aveva avuto modo di conoscere altri giovani, e notavo che mi cercava tra i presenti quando arrivava nella sala del refettorio dove normalmente eravamo riuniti.
Le proposi di sentirci magari telefonicamente anche se non potevo essere io a chiamare perché non essendoci cellulari, avrei dovuto cercarla dalle monache o a scuola, ambedue cose difficili, se non impossibili.
Passai un paio di volte a prenderla sotto scuola per accompagnarla al pensionato, e cominciai a notare una sempre maggiore tristezza e insofferenza cominciando a dirmi che pensava di tornare in Svizzera.
Non capivo cosa la turbasse tanto e perché volesse porre fine a quell’esperienza che aveva tanto desiderato, tra l’altro in una città che a suo dire le piaceva molto.
Non sapevo come fare evolvere quella situazione: stavamo bene insieme, ed accettava i miei primi approcci, anche se d’improvviso si irrigidiva e si ritraeva.
Mi chiamò una mattina dicendomi che voleva parlarmi e le proposi di andare a ballare allo Stereo Club al parco Margherita, che era il mio locale preferito, insieme ai Fratelli Damiani; lo preferivo rispetto alla Mela, che era il locale più “in” della città, meta serale abituale di fighetti, che normalmente venivano definiti in vernacolo con parola volgarissima “chiattilli”, papà e figli di papà danarosi, esibizionisti, oltre a giovani emergenti tra i quali brillava un giovane professore di diritto, enfant prodige della Napoli che contava.
Lo Stereo Club era assai più piccolo: due sale grandi delle quali una era divisa a metà la cui parte iniziale fungeva da ingresso, banco del gestore e cassa; da quello spazio al quale si accedeva attraversi due pesanti tende scure ai due ambienti con divanetti e poltroncine blu, attorno alla pista per ballare, luci soffuse e basse, ed un sofisticato sistema di alta fedeltà dal quale uscivano i suoni della musica alla moda. Alle pareti c’erano un certo numero di nicchie chiuse da una grata, all’interno delle quali venivano conservate le bottiglie dei clienti abituali. Era il posto giusto dove tentare di capire cosa le succedeva, per chiacchierare e tentare di iniziare a “pomiciare” o come si dice altrove a “limonare”.
Appuntamento a Piazza Amedeo verso le sei, orario compatibile con i suoi obblighi di rientro, considerando che le monache avevano la casa in Via Crispi, ad un passo dal locale.
Le corte giornate invernali, ed il cattivo tempo, rendevano il pomeriggio uggioso e mentre l’aspettavo pensavo al caldo del locale dove di lì a poco saremmo entrati, ma mi accorsi subito, quando la vidi avvicinarsi, che l’aria non era delle migliori.
Avevo riflettuto nei giorni precedenti che il motivo della sua difficoltà potesse essere dovuto alla presenza di qualche altra persona nella sua vita e che non sapesse cosa e come fare per uscire da quell’imbarazzo; forse era fidanzata in Svizzera e non voleva tradire quel suo amore lontano.
Piovigginava, o meglio “schizzechiava” come si dice a Napoli, e ci riparammo sotto la pensilina della metropolitana e subito mi confermò non solo che non voleva andare al club ma anche che sarebbe partita da lì a qualche giorno per ritornare a casa.
Cominciai a chiederle il perché e mi disse che era stanca, che non reggeva più la situazione, che non riusciva più a dormire, poi cominciò a piangere.
Ero in grande imbarazzo; intorno a noi le altre persone che sostavano in attesa che spiovesse, ci guardavano perplesse, e guardavano me come responsabile di quella situazione, mentre io non capivo cosa non riuscisse a dirmi.
Un po’ alla volta cominciò tra le lacrime a dirmi che c’era qualcuno che la perseguitava con le sue attenzioni ed i suoi approcci, mi disse che si trattava di un insegnante più grande di lei di una decina d’anni, che la seguiva, la cercava, e lei non sapeva come allontanare quella persona con la quale appena arrivato aveva stretto amicizia che però si era dimostrata nel tempo avere scopi diversi.
Cercai di consolarla dicendole che avrebbe potuto rivolgersi al direttore che avrebbe potuto aiutarla, ma riteneva la cosa impossibile. Le chiesi chi fosse la persona e un istante prima di allontanarsi, mi dette un bacio e mi disse esser l’insegnante di educazione fisica.
Ancora oggi ripensando a quei momenti comprendo quanto sia stato difficile capire ed accettare quella situazione; ero impreparato ed inadeguato rispetto al fatto che fossi in competizione con una persona più grande ed autorevole di me, ma la cosa che mi faceva girare a vuoto era che il mio rivale fosse una donna.
*già Professore Ordinario presso l’Università degli Studi di Salerno
