L’umanità terrena di un mito

di Giuseppe Moesch-

Da qualche tempo la televisione sembra aver riscoperto uno dei grandi talenti della musica italiana, considerato un poeta che ha vissuto la propria vita avventurosa marcata da pesanti accuse rivelatesi poi false. È stato omaggiato da uno sceneggiato che non credo abbia colto l’essenza dell’uomo che nella mia esperienza ho avuto fugacemente modo di conoscere.

Ho insegnato per tutta la mia vita di docente in sedi diverse da quelle della mia residenza, prima a Cagliari, poi a Milano ed infine per gli ultimi trent’anni a Salerno.

Avevo affittato un piccolissimo appartamento a Calvanico, un minuscolo paese non lontano dall’Università, appartamento ricavato dalla suddivisione di una casa forte, con un bel cortile interno che conservava ancora un vecchio frantoio per le ulive, riparato da una specie di gazebo in legno, un torchio per l’uva con costituito da una vite infinita realizzata in legno, ed una decina di orci alti oltre un metro sparsi intorno. Il palazzo appartiene agli eredi di una famiglia tradizionalmente fornitrice di maggiorenti alla comunità locale; l’appartamento al primo piano era composto da due delle varie stanze infilate una dietro l’altra, che si aprivano su un terrazzo comune che affacciava sull’interno e con finestre che davano sulla strada.

In una delle stanze c’era un gigantesco camino sulla mensola del quale, sotto una campana di vetro come quelle che si usavano in passato per salvare dalla polvere le statue dei santi, era conservato un barbagianni impagliato che era morto dopo essersi ferito all’impatto colla finestra e che è stato mio compagno di cella per qualche decina d’anni.

Le mie serate invernali erano caratterizzate dalla lettura su una poltrona nella quale talvolta mi assopivo al calore del camino, o guardando la televisione che aveva un effetto anche più immediato, anche se, spesso, mi capitava di andare ad esplorare i locali della movida salernitana andando a cena in qualche ristorantino o a bere qualcosa in compagnia di qualcuno dei miei colleghi di dipartimento.

Tra quelli che più assiduamente frequentavo c’erano ovviamente i miei collaboratori della cattedra, uno dei quali avrebbe in seguito preso il mio posto, ed una giovane ricercatrice; un paio di volte ho anche organizzato una cena a casa con un entusiasmo che faceva pensare ad un clima goliardico assai amicale e, devo dire, interessante anche perché multidisciplinare; una geografa, un aziendalista, un paio di storici, e la responsabile della segreteria della presidenza, con i rispettivi coniugi, tutti amici e tutti perfettamente omogenei rispetto alla voglia di vivere che manifestavano e che, il vino ed il camino contribuivano ad accentuare.

Una sera decidemmo di andare a cena in un ristorante che ci avevano consigliato a Nocera, della cui cucina ci dicevano molto bene.

La serata era fredda ed umida e trovare il locale fu abbastanza complicato, sia per la carenza delle indicazioni che ci erano state fornite sia perché la nebbia che ci circondava non facilitava il riconoscimento dei punti notevoli di riferimento.

Parcheggiammo in una piazza e percorremmo un vicolo dove scorgemmo un’insegna illuminata ed entrammo in un locale quasi buio con luci soffuse sui tavoli, dove solo un altro tavolo era occupato, come capimmo poi dal proprietario con due altri ospiti; ci fecero accomodare noi quattro, il mio collaboratore con la moglie e la mia ricercatrice, in fondo al locale ad un tavolo già apparecchiato a seguito della prenotazione.

La prima sensazione fu di leggero disagio pensando che l’assenza di avventori denunciasse una condizione di potenziale fregatura ma subito, dalla prima portata, capimmo che la fama era meritata e che solo il cattivo tempo e la stagione non propizia contribuiva a rendere poco attrattivo il posto.

Continuando a chiacchierare fummo distratti dal trio che era seduto all’altro tavolo occupato, ed in particolare la voce di uno dei tre ci apparve familiare.

Era una voce profonda, calda, un poco rauca per il fumo e dopo aver sbirciato tentando di non dare nell’occhio, convenimmo che si potesse trattare di Franco Califano.

Ne fu certa in primis la moglie del mio collega, che ci disse come fosse per lei inconfondibile considerato che durante l’estate appena trascorsa aveva subito una full immersion in tutto il repertorio del cantante durante i giorni trascorsi sulla barca di un loro amico che era un fan del Califfo.

Alla fine, sia guardando con finta indifferenza sia tentando di ascoltare i discorsi dei tre, ci convincemmo della cosa, che fu definitivamente confermato dalla decisione della nostra amica di recarsi alla toilette confermando così di averlo riconosciuto.

Si accese allora la discussione su come fosse possibile che quell’uomo si trovasse in una serata come quella in un luogo simile, fuori dai circuiti a cui era abituato vista la fama di cui godeva.

Mi ricordai che quando arrivò in Italia, dopo essere andato via da Tripoli, dove era nato dopo un atterraggio d’emergenza poiché la madre cominciò ad avere le doglie in volo, andò prima a Roma e poi a Nocera Inferiore essendo il padre di Pagani e la madre di quella cittadina.

Quindi capimmo che era un ritorno alle origini e sapemmo poi che spesso tornava dai suoi amici d’infanzia quando voleva rilassarsi.

La curiosità di conoscerlo fu forte ma nello stesso tempo non volevamo rompere le scatole ad un uomo che stava tranquillo e che passava tutta la vita sommerso dall’attenzione dei suoi ammiratori.

Decidemmo allora di cercare un compromesso lo avremmo salutato al momento di uscire, e così facemmo: chiedemmo il conto e ci incamminammo verso l’uscita, e salutando il proprietario ci avvicinammo al tavolo per salutare anche Califano.

La reazione non fu di fastidio perché ovviamente era abituato a quel tipo di seccature ma credo che la ragione principale fosse di origine diversa.

La mia ricercatrice era una giovane donna di poco più di venticinque anni, alta, snella fisico da indossatrice, occhi verdi considerata, insieme ad una sua collega del Dipartimento di Economia Aziendale, una della più belle ragazze della Facoltà, che non era passata inosservata davanti all’uomo, noto tombeur de femmes, da cui il soprannome di Califfo.

Si alzò dal tavolo e continuando a rispondere agli apprezzamenti che gli venivano rivoti in particolare dalla moglie del mio collega che gli raccontava la storia dell’estate in barca con il sottofondo della sua musica, e di come avrebbe raccontato al suo fan dell’incontro, prese dalle mani del suo segretario una serie di fotografie autografate e, non staccando gli occhi dalla nostra collega, confermò, con una frase lapidaria la sua fama, con aria ispirata ed una certa impudica eleganza dicendo: “Con te ce farei un figlio”, facendo avvampare la donna e lasciando tutti noi imbambolati ed incapaci di rispondere, andando via.

 

Franco Califano. Unknown author. Public domain
Giuseppe Moesch Giuseppe Moesch

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