La Giustizia esiste?
di Michele Bartolo-
Diceva un ex procuratore generale degli Stati Uniti d’America, quindi un magistrato, che “un diritto non è ciò che ti viene dato da qualcuno, ma è ciò che nessuno può toglierti”. Questa affermazione ci aiuta a ricordare che la civiltà di un Paese, il rispetto della giustizia, della libertà, della dignità di ogni singolo individuo passa attraverso il sistema giudiziario e le modalità con cui esso viene amministrato.
L’esigenza che in ogni società vi sia un insieme di regole, secondo il noto principio “ubi societas, ibi ius”, impone non solo che vi sia una pacifica accettazione del loro contenuto da parte dei consociati ma che il sistema, nel suo complesso, abbia credibilità nel rendere operative queste regole e nel farle rispettare.
Ciò premesso, nel nostro Paese vi è una legge fondamentale, che come tutti sappiamo è la Costituzione, la quale dedica molti articoli anche alla Giustizia ed al processo, affermando con chiarezza e perentorietà che “ (..) la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento (..)”, tanto da assicurare anche ai non abbienti, con i soldi di tutta la comunità, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione (vedasi art. 24 Carta Costituzionale). Ma, per continuare nella lettura, anche l’articolo 111 della Costituzione afferma che: “(..) la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge in contraddittorio tra le parti, davanti ad un giudice terzo ed imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata (..)”.
Questa, diciamo, è la teoria. Ma, in pratica, funziona davvero così? Ognuno di noi ha garantiti i suoi diritti, quelli sanciti dalla Costituzione? La funzione della difesa è tutelata nell’ambito di un giusto processo regolato dalla legge? Veniamo alla realtà.
Non mi riferisco, si badi bene, ai pur deprecabili episodi citati in altri scritti, ovvero il caso del GIP presso il Tribunale di Roma che invita l’indagato a rimanere a casa, aspettando l’esito del giudizio che gli verrà comunicato a mezzo raccomandata o pec, senza disturbarsi a nominare un difensore d’ufficio, come prevede la legge, nell’ottica dell’inviolabilità di cui all’art. 24 Costituzione; non mi riferisco neanche al recente caso di una penalista, che si è vista negare il legittimo impedimento alla partecipazione all’udienza, nonostante avesse un figlio in ospedale.
Questi fatti sono sicuramente gravi, ma sono solo i sintomi del malessere generale della Giustizia, di una malattia che ha le sue radici nelle scelte legislative, spesso in totale contrasto con i principi costituzionali che abbiamo ricordato. Se la Costituzione, tanto per iniziare, ha stabilito che ogni cittadino ha diritto ad un giusto processo è perché ha individuato e precostituito solo la sede processuale, ovvero quando l’accusa e la difesa si incontrano e si scontrano, il luogo unico e privilegiato in cui il fatto storico viene esaminato e valutato, la prova viene formata, il Giudice, terzo ed imparziale, perviene al suo convincimento.
E questo processo, poi, deve anche essere “giusto”, cioè deve prevedere che accusa e difesa siano messe sullo stesso piano ed abbiano gli stessi mezzi per dimostrare la fondatezza delle proprie tesi e confutare quelle altrui. In pratica è cosi? Nel campo del processo penale, intanto, un problema irrisolto rimane la contiguità professionale ed ambientale di pubblici ministeri e Giudici, cioè di una parte del processo e del soggetto terzo che dovrebbe giudicare, dal momento che si parla da anni di separazione delle carriere, ma ogni ipotesi legislativa in merito si è arenata.
Ancora, non solo non può dirsi che il processo sia giusto, proprio a causa della sperequazione tra la posizione dell’accusa e quella della difesa, ma dobbiamo anche augurarci che un processo ci sia, perché spesso la notizia di reato diventa la condanna, l’avviso di garanzia la macchia indelebile di colpevolezza (in dispregio dell’altro principio costituzionale della presunzione di innocenza), il dibattimento rimane una chimera, sostituito dalla sistematica adozione di riti alternativi, che conducono ad un giudizio molto più sommario e meno aderente al fatto.
Nel campo del processo civile, le cose non vanno meglio, anzi. Non bastava l’introduzione della mediazione o di altre forme alternative al contenzioso, privilegiando nuovi istituti e nuove figure, quasi che i difensori non possedessero le competenze e non avessero la volontà di transigere controversie pendenti o da intraprendere. Oggi si è aggiunta anche la normativizzazione dell’emergenza, ovvero l’adozione, dopo l’esplosione della pandemia dovuta al Covid 19, dell’udienza telematica, attualmente prevista da un nuovo articolo del codice di procedura civile, introdotto dalla riforma Cartabia, ovvero l’art. 127 ter cpc, che di fatto annichilisce, per legge, quello che la Costituzione vorrebbe garantire. Il processo non esiste più, tanto meno il contraddittorio tra le parti.
La stessa udienza telematica, in realtà, non è neanche telematica: si è stabilita la regola dell’udienza a distanza con il sistema di note scritte che ognuna delle parti del processo può depositare, udite udite, sino al giorno dell’udienza calendarizzata, udienza virtuale, all’esito della quale, il Giudice, terzo ed imparziale, nel chiuso della sua stanza, quasi soggetto alla quarantena da coronavirus, emette il suo provvedimento. Nessun avvocato, quindi, può avere certezza che le proprie istanze siano lette e comprese dal Giudice, né può dedurre o controdedurre in merito ad istanze, eccezioni o conclusioni della controparte, di cui non può conoscere il contenuto, attesa la simultaneità del previsto termine di deposito, con buona pace di un inesistente contraddittorio.
L’emergenza diventa l’ordinarietà, l’eccezione, pur condivisibile in certi casi e in certe situazioni, diventa la regola. Tutto questo a tacere, per amor di Patria, dell’effettivo rispetto del termine di ragionevole durata del processo. E’ così che si rispetta la Costituzione? E’ questo il sistema per garantire il diritto di difesa e, in generale, i diritti di ogni consociato? Occorre una riflessione profonda, una presa di coscienza collettiva, perché, al di là delle norme e dei tecnicismi, il problema non è degli addetti ai lavori o dei soli avvocati, ma di tutti e nessuno escluso i cittadini di questo Paese.
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