Alla fine l’hanno preso: una taglia trentennale su Salman Rushdie
di Pierre De Filippo-
È finita nella maniera più tragicamente ironica la lunga fuga – che fuga non è stata ma semplice coerenza coi propri pensieri – di Salman Rushdie, lo scrittore anglo-indiano che, nel 1988, aveva pubblicato Versi satanici, opera con la quale – a parere dell’Ayatollah Khomeini – diffamava in maniera blasfema e irridente la religione islamica e i suoi precetti.
Era stato proprio Khomeini, padre padrone dell’Iran e di quella sua importante e radicale componente detta dello sciismo, che da secoli si contrappone a quella, maggioritaria nel mondo islamico, del sunnismo, ad imporre sulla sua testa una fatwa, che significherebbe chiarimento ma che, in Occidente, ha presto significato pena di morte in capo a chi la subisce.
Rushdie, accusato di blasfemia, riparò quindi in Inghilterra per sfuggire al mandato iraniano.
Per trent’anni, mentre intorno a lui le persone continuavano a morire per mano altrui – è il caso di Hitoshi Igarashi, traduttore giapponese del romanzo, ucciso da emissari del governo di Teheran, di Ettore Capriolo, traduttore italiano, accoltellato in casa sua, e di William Nygaard, editore norvegese, colpito da arma da fuoco – era riuscito a cavarsela, protetto e sotto protezione.
E qui arriva l’ironia dietro la tragedia: Chautauqua, New York, nel Paese più libero del mondo, Rushdie si prepara ad una conferenza; è tranquillo, rilassato, contento della giornata.
Per poco: mentre è sul palco, Hadi Matar, ventiquattrenne del New Jersey ma di origini albanesi, gli si lancia contro e lo accoltella.
Al collo, alle braccia, al ventre.
Rushdie cade a terra ed è immediatamente soccorso dai presenti. Viene trasportato in un ospedale della Pennsylvania, dove viene operato. Trascorrono ore di angoscia, lo scrittore è ferito gravemente e attaccato ad un respiratore. Forse perderà un occhio, certamente ha il fegato malconcio.
Il suo aggressore viene fermato. Nega qualsiasi accusa ma sul suo cellulare vengono travate immagini inneggiati il generale Soleimani, che qualcuno ricorderà essere stato ucciso nel gennaio del 2020 in Iraq per volere di Donald Trump.
Le ultime notizie dicono che, pian piano, la salute di Salman Rushdie sta migliorando.
Il fatto in sé è semplice e, purtroppo, fin troppo familiare: una aggressione in pubblico. Come quella ai Kennedy, come quella a Martin Luther King, come quella – solo poche settimane fa – a Shinzo Abe.
Dietro, però, vi si cela l’ombra lunga del fondamentalismo. La sua capacità, prima ancora di armare la mano, di tenere la mente concentrata su un obiettivo. La costanza ancestrale dei fondamentalisti è, probabilmente, il loro punto di forza e ciò che, maggiormente, dovrebbe preoccuparci.
Alla fine degli anni Novanta, lo scienziato politico americano Samuel Huntington ha pubblicato il famoso saggio intitolato Lo scontro delle civiltà, in cui teorizzava proprio questo, e cioè che in una società multipolare – come quella che si è avuta dopo la caduta del Muro di Berlino – il conflitto sarebbe emerso principalmente per motivi culturali ed identitari.
È una tesi che ha trovato una validissima sponda nei fatti dell’11 settembre ed in tutto ciò che a questo ha fatto seguito ma che impone una valutazione di fondo: è davvero così? Davvero l’uomo, per citare appunto Martin Luther King, “ha imparato a volare come uccelli, a nuotare come pesci ma non a vivere come fratelli”?
Sarebbe drammatico se così fosse.
Ma l’attentato a Salman Rushdie questo ci dice.
Ora prudenza nei giudizi: guai a fare di tutta l’erba un fascio. Il fondamentalismo è una cosa ben precisa e rappresenta, in proporzione, una piccola fetta di credenti leali, fedeli ma anche razionali e moderati.
Con loro nessuno scontro tra civiltà.
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