Nelle piaghe della guerra russo-ucraina
-di Pierre De Filippo
Dopo un giorno di relativa tregua, si torna a sparare e a contare vittime in Ucraina, dove l’ira russa pare essere stata frustrata – e, per questo, ancora più agguerrita – dal non essere riuscita a provocare lo sterminio definitivo del Paese confinante.
Ogni giorno ha la sua storia e ogni giorno queste storie diventano sempre più di vita vissuta, eventi spiccioli nell’economia di una guerra ma che ancora ci impongono – se ancora ve ne fosse bisogno – di ribadire che alla guerra non possiamo abituarci, che la guerra non può assuefarci.
Capita, quindi, che un missile russo colpisca l’appartamento di Boris Romanchenko, 96 anni, ex prigioniero dei lager nazisti. Era sopravvissuto a Buchenwald, Peenemunde, Dora Mittelbau, Bergen Belsen. È morto nella sua casa di Kharkiv.
Il pericolo principale oggi è arrivato da Sumy, a nord-est, che ha visto la cittadina colpita da numerosi missili e bombe durante tutto l’arco della notte.
Una di queste bombe ha colpito l’impianto chimico della città, dal quale – a causa dell’esplosione – è fuoriuscita dell’ammoniaca. Le autorità hanno quindi consigliato alla popolazione di non uscire e di respirare attraverso una benda umida.
Prosegue la tendenza, ormai compresa, russa di colpire obiettivi sensibili e di trasformare questa guerra in un lungo logorio per gli ucraini, portandoli al cedimento psicologico.
Fortunatamente, con le luci del giorno il governo ucraino rassicura: “la perdita all’impianto di Sumy è sotto controllo, nessuna minaccia”. Almeno questo.
Ma le esplosioni proseguono: ad Odessa, che continua ad essere colpita dal mare, alla regione di Rivne, dove – riporta il portavoce del ministro della Difesa russo – “missili da crociera lanciati dall’aria ad alta precisione hanno colpito un centro di addestramento per mercenari stranieri e formazioni nazionaliste ucraine…”; a Kherson, dove i russi hanno sparato sui manifestanti che ribadivano il loro legame con la madrepatria e a Kiev, dove è stato colpito un centro commerciale che era, a parere dei russi, “un deposito di razzi”.
“Sono sicura che morirò presto. È questione di giorni. In questa città tutti aspettano costantemente la morte. vorrei solo che non fosse così spaventosa”, dice una cittadina di Mariupol e rende bene l’idea di ciò che stanno vivendo.
Sul versante internazionale, proseguono le pressioni americane sulla Russia attraverso le sanzioni su petrolio e gas. Washington ha già belli che chiusi i rubinetti ma se lo può permettere, la sua dipendenza era di poco conto.
Più pragmatici in Germania: ci piacerebbe tanto ma siamo troppo dipendenti dal gas e dal carbone russo, dice il Cancelliere Scholz. L’Italia – che ieri ha ricevuto le sue belle minacce da Mosca – si è espressa nei giorni scorsi ribadendo che farà tutto il possibile per rendersi il più possibile autonoma ma non sarà un qualcosa di immediato.
“L’embargo sul petrolio russo colpirà tutti” minacciano dal Cremlino. E sanno di poterlo fare perché, in luogo di ricercare una propria indipendenza, l’Europa negli ultimi anni s’è affidata troppo ad un partner per sua stessa natura inaffidabile. E ora ne paga le conseguenze.
“Oggi si discuterà di sanzioni all’energia russa” dice Borrell ma anche lui sa che sarà difficile arrivare a trovare una quadra.
Però poi aggiunge che “Mariupol è un immenso crimine di guerra, è distrutta”. Ed è forse da lì, volendo essere pratici, razionali e anche un po’ col pelo sul cuore, che si deve ripartire: da questa città martoriata che, da sola, può valere a Putin una incriminazione per crimini contro l’umanità.
Intanto, i negoziati – un round si è tenuto anche stamattina – vengono definiti “una farsa” da parte ucraina. Le richieste di Mosca sono sempre più esorbitanti e inaccettabili.
L’incontro tra Putin e Zelensky, di cui si parlava da qualche giorno, probabilmente non si terrà: non ci sono le condizioni, dice Mosca. Ed è vero.
Chiude il Papa che dice: “la spesa per le armi è uno scandalo, non una scelta neutrale”. Ha ragione, perché Lui, di mestiere, fa il Papa.
Ci sono alle volte delle condizioni, però, che impongono che per fare la pace sia necessario prima aver fatto la guerra. E gli ucraini, che devono difendersi, non possono farlo con la fionda.
Che le armi parlino oggi per zittirsi domani allora.
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