Ci vuole diplomazia
di Pierre De Filippo-
Ventiquattresimo giorno di guerra che passa come sono passati molti negli ultimi tempi: con discese ardite e con risalite, per citare Battisti e Mogol. Quando sembra che stia per deflagrare definitivamente il conflitto mondiale, arriva qualche voce d’apertura, qualche braccio teso, qualcuno che “sdrammatizza” una situazione che definirla drammatica è dir poco. Quando, viceversa, pare proprio che i negoziati stiano per imboccare la strada giusta, che la diplomazia possa avere la meglio sulle ostilità, ecco che queste si ripresentano più ciniche e bare di prima.
Oggi, per dire, è una di quelle giornate di “ordinaria follia”: si è sparato su militari e civili, i bombardamenti sono proseguiti, le città – sempre le stesse di cui, ormai, conosciamo latitudine, longitudine e pronuncia – sono state colpite e rase al suolo.
Da questo punto di vista, nulla di nuovo sotto il cielo.
Oggi a far sentire la sua voce, forte e chiara, è stato nuovamente lui, lo zar, Vladimir Putin. Lo si era visto – o meglio, lo avevano visto – stanco, affaticato, con l’occhio velato, col collo gonfio, un po’ giallognolo e mille speculazioni erano state fatte – “che stia male?” – che potessero anche rendere più comprensibile le sue ultime mosse.
Oggi torna, più carico di prima, allo stadio Luzhniki, dal quale, microfono in mano, si rivolge alla Nazione: “l’obbietto dell’operazione speciale in Ucraina è evitare il genocidio nel Donbass. Sappiamo esattamente cosa fare, attueremo tutti i nostri piani. Abbiamo risollevato la Crimea dal degrado e dall’abbandono, dalle condizioni pessime in cui versava…”, che stranamente coincidevano con una invidiabile collocazione geopolitica. Prima di chiudere, un riferimento anche alla Bibbia: “non c’è amore più grande che dare la propria vita per i propri amici”.
Straordinariamente comodo dirlo dallo stadio Luzhniki e non da Kiev o Kharkiv, Odessa o “Zaporizzia”, Melitopol o Mariupol.
Parla anche il Ministro degli Esteri Sergej Lavrov: “noi non abbiamo mai chiuso la porta all’Occidente, l’hanno chiusa loro. Siamo disposti a cooperare con tutti coloro che sono pronti a farlo su base del rispetto reciproco”.
Spiace solo constatare che, se c’era, il rispetto russo – sul quale poi si poteva pretendere di riceverne in cambio quanto ne si dava – non si è visto. Era forse nascosto, come il buon senso, dietro il senso comune, fatto di slogan come questi, vacui e senza fondamento.
Parlando con Olaf Scholz, Putin è tornato a ribadire che, a suo dire, sarebbe “Kiev a voler rallentare il processo di pace” non volendo cedere su tutto il fronte, volendo continuare a combattere in difesa dei propri territori, della propria gente.
Se Putin rileggesse quel passo della Bibbia che ha citato e lo ribaltasse sugli ucraini probabilmente capirebbe il perché di tanta ostinazione, di tanta strenua resistenza.
E non poteva mancare la risposta del Cremlino alle frasi – risultate ai più fuori luogo – di Joe Biden, che aveva definito Putin “un dittatore omicida, un assassino”. La verità, per carità, ma non conviene dirla quando il dittatore assassino si sta comportando come tale contro poveri civili.
Da Mosca – umiliati e offesi – hanno risposto che ritengono quelle affermazioni “un insulto personale” nei confronti di Putin ma che, e qui pare davvero che anche al Cremlino siano stati un tempo democristiani, “considerando l’irritazione del signor Biden, la fatica e talvolta la sua smemoratezza, che alla fine si traducono in affermazioni aggressive, noi preferiremmo astenerci dal fare qualunque duro commento che possa causare un’ulteriore aggressione”.
La diplomazia è vincente se l’arma della guerra non è esclusa a priori, dicono gli esperti; la diplomazia è vincente se lavora in parallelo con le esplosioni, le bombe e le morti; la diplomazia è vincente se costruisce lì dove altrove si distrugge. La diplomazia, talvolta, è fatta da una lingua morsicata che evita di dire ciò che davvero si pensa.
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