Concessioni balneari: punto di non ritorno

-di Pierre De Filippo-

Il Consiglio di Stato lo scrive in maniera chiara e, soprattutto, ufficiale, nero su bianco: “le norme legislative nazionali che hanno disposto la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative sono in contrasto con il diritto eurocomunitario. Tali norme non devono essere applicate né dai giudici né dalla pubblica amministrazione”.

Quello delle concessioni balneari – i lidi, i bagni, a seconda delle latitudini – è un tema che ben fa comprendere quali siano i veri “poteri forti” italici: piccole lobby ma organizzate e rumorosissime che nessuno intende scontentare.

Il terreno è spinoso e conviene procedere per gradi: siamo, questo lo sappiamo bene, il Paese delle PMI, piccole e medie imprese, solitamente a conduzione familiare. È su questo che, per decenni, si è fondato il Made in Italy di cui andiamo fierissimi: Ferrero, Moratti, Ferragamo, Scavolini, Rana. Delle vere e proprie dinastie imprenditoriali.

Ottimo quando lo si fa con risorse proprie, meno ottimo quando questa eredità si fonda su un bene dello Stato: è il caso delle concessioni balneari. Di generazione in generazione, di rinnovo automatico in rinnovo automatico, di proroga in proroga, le spiagge italiane sono nelle stesse mani da decenni. E, chiariamolo, non è certo questo il problema; il problema è che lo si è fatto senza aprirsi alla concorrenza, vale a dire senza verificare se vi fosse la possibilità, per lo Stato, di valorizzare maggiormente il suo bene e senza, oltretutto, adeguare i canoni alle variazioni di valore di quei tratti di costa.

Una calma piatta – il mare calmo della sera – fino al 2006, con l’emanazione della Direttiva Bolkestein, dal nome del commissario Ue alla concorrenza. Secondo questa direttiva, i beni demaniali, proprio perché non di proprietà privata, dovessero essere messi a gara tra chiunque, operatore del settore, volesse parteciparvi. Niente più rinnovi automatici, niente più diritti di prelazione. Concorrenza libera, trasparente, aperta.

Apriti cielo, guai a toccare i diritti acquisiti. I governi italiani, sciocchi nel loro credersi più furbi degli altri, hanno risposto dicendo “sì” ma…

Sì alle richieste della Commissione, sì a mettere a gara, sì a valorizzare i propri beni ma alle loro condizioni. Nel 2010, il governo Berlusconi proroga le concessioni già in essere fino al 2015, nel 2012, il governo Monti le proroga fino al 2020 e nel 2019 il primo governo Conte le prorogava addirittura fino al 2033.

Tutto ciò mentre la Commissione europea e la Corte di Giustizia ci bombardavano di procedure di infrazione e multe, conti salati da pagare.

Anche il governo Draghi, nell’ultimo Ddl Concorrenza, aveva preferito glissare sul tema, forse conscio della imminente sentenza del Consiglio di Stato.

E allora torniamo alla sentenza. Cosa stabilisce ulteriormente? Stabilisce che, per evitare cambiamenti di regime dall’oggi al domani, difficili da realizzare sia da un punto di vista tecnico-organizzativo che economico, “le concessioni demaniali per finalità turistico-ricreative già in essere continuano ad essere efficaci sino al 31 dicembre 2023, fermo restando che, oltre tale data, anche in assenza di una disciplina legislativa, essere cesseranno di produrre effetti”.

Dalle circa 52mila concessioni balneari presenti in Italia, lo Stato – a causa dell’assenza di concorrenza e di ricalcolo del valore – guadagna poco più di 100 milioni all’anno, circa duemila euro a stabilimento. Ciò che i balneari guadagnano in pochi giorni.

Solo qualche settimana fa – il 12 ottobre – la regione Campania, che notoriamente non ha bisogno di risorse, aveva dimezzato l’imposta regionale sulle concessioni balneari.

Un provvedimento festeggiato.

Un tempismo perfetto.

Vero che sono in altre faccende affaccendati ma, forse, dovranno discuterne meglio.

La paura nei confronti della concorrenza è uno dei tratti distintivi del nostro Bel Paese. Perché è meritocratica e noi non siamo un Paese meritocratico, perché non è opaca e noi siamo un Paese opaco. Perché permette genera un guadagno per lo Stato e noi, questa cosa, non la possiamo accettare.

 

 

 

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