La pandemia e le sue vittime
-di Michele Bartolo-
Abbiamo spesso parlato della pandemia sanitaria da Covid 19 sotto l’aspetto degli effetti economici delle restrizioni governative alle attività ovvero in ordine alle implicazioni sul mondo della scuola per finire, da ultimo, in relazione alla tematica del green pass e della campagna vaccinale.
Dal punto di vista dell’attenzione mediatica, sicuramente e giustamente ogni attenzione è stata rivolta alle vittime del virus, ovvero coloro i quali hanno perso la vita, hanno dovuto affrontare la sofferenza della malattia o, ancora, hanno dovuto perdere i propri cari senza poter neanche dar loro un saluto. Tutti siamo rimasti colpiti ed addolorati nel vedere le immagini delle bare che sfilavano ed assistere anche, nella prima fase, all’impotenza terapeutica rispetto ad un virus per noi sconosciuto, dall’impatto devastante sulle nostre vite.
Con il passare del tempo, però, e con l’intensificarsi delle restrizioni, che ci hanno accompagnato nell’ultimo anno e mezzo, la platea di vittime si è allargata, questa volta nel senso di categorie sociali o semplici cittadini che sono stati colpiti duramente nella loro personalità, nel diritto al lavoro, nelle relazioni sociali e di cura familiare.
Nell’ambito delle attività economiche, sicuramente il settore più colpito è stato quello alberghiero e della ristorazione, ma anche tutte le attività strettamente connesse all’indotto turistico, quali quelle gravitanti sull’organizzazione ed effettuazione di viaggi e spostamenti tra le diverse regioni o i diversi Paesi, come pure i servizi connessi all’ospitalità dei non residenti, quali i bed & breakfast. Da questo punto di vista, è veramente paradossale che attività floride e di sicuro mercato verso la fine del 2019 siano state poi quelle più colpite dalla pandemia.
La inibizione dei contatti sociali ha di fatto impedito ogni forma di relazione, azzerando anche le attività sportive e di svago nel loro complesso. L’effetto immediato e visibile è stato, per i più, l’assenza del movimento delle persone, la mancanza di turisti e ancora, pensando alla nostra città, la mancata organizzazione della rassegna di Luci d’artista. Ma dietro tutto questo, ovviamente, c’è chi ha perso il lavoro, chi non ha avuto opportunità per averlo o conservarlo, chi non è stato in grado di mantenere economicamente la propria famiglia. E questo perché lo smart working non è stato possibile per queste categorie produttive e quindi nessun effetto benefico o sostitutivo è stato loro offerto dalla implementazione dei servizi digitali e dal progresso tecnico e scientifico.
L’era di internet ci è stata utile per mantenerci in contatto a distanza, per proseguire l’attività della pubblica amministrazione, per partecipare a congressi od eventi a distanza, per effettuare acquisti, anche per rendere più agile e produttivo il lavoro dei tribunali e degli uffici pubblici e privati. Ma tali effetti benefici non potevano e non possono essere adeguati ad attività che si basano necessariamente sul contatto umano. Per la verità, deve anche evidenziarsi, in una certa fase, una colpevole responsabilità dei nostri governanti, a tutti i livelli, nazionale e locale: chi non ricorda continui ed estenuanti passaggi di colore dal rosso, al giallo, all’arancione, rispetto ad esempio alla condizione dei ristoratori che, pur avendo adeguato le loro attività a tutte le prescrizioni anticontagio, non erano in grado di programmare il futuro a più di sette giorni, perché nuovamente investiti da provvedimenti di chiusura, il più delle volte comunicati con ventiquattro ore di anticipo, magari decorrenti dal giorno di maggiore potenziale introito economico.
Per carità di Patria, non mi intrattengo sui cosiddetti ristori, che avrebbero dovuto tenere in piedi le attività, perché, a fronte delle spese sostenute e dei mancati guadagni, si è spesso trattato di semplici panacee, ottenibili peraltro a seguito di iter burocratici macchinosi e penalizzanti, tali da far rimpiangere le pur complicate agevolazioni fiscali concesse al settore dell’edilizia, anch’esso colpito dal blocco dei cantieri e delle attività connesse. Per lasciare il campo dei settori economici, indubbiamente le categorie di cittadini che maggiormente hanno risentito della pandemia sono state le donne ed i bambini.
Per quanto riguarda le donne, sono loro le principali vittime economiche e sociali del Covid, senza distinzioni di età e provenienza geografica, come rilevato da una indagine IPSOS per WeWorld: una su due ha visto peggiorare la propria situazione economica negli ultimi dodici mesi; in particolare, le giovani pagano il prezzo più alto, ben sei su dieci, nella fascia di età tra i 25 e i 34 anni, si trova adesso in condizioni economiche peggiori di prima. E’ indubitabile, infatti, che chi ha dovuto rinunciare al lavoro ed all’indipendenza economica sono state soprattutto le donne.
La pandemia, inoltre, ha avuto un forte impatto anche sul lavoro sommerso, soprattutto di cura ed assistenza domestica. Tre donne su dieci, non occupate con figli, a causa del Covid hanno rinunciato a cercare lavoro. Per quanto riguarda, poi, il carico familiare, il lavoro di cura è stato quasi interamente sulle spalle delle donne, in quanto sono queste ultime a farsi carico da sole di persone non autonome, anziani o bambini. Oltre alle implicazioni pratiche, questi dati raccontano di un impatto devastante sulle relazioni sociali e sull’autopercezione delle donne: perdere l’autostima e la voglia di vivere mina tutti i pilastri fondamentali per costruire una vita sana e dignitosa per sé e per i propri figli.
A tal proposito, veniamo alle altre vittime di cui dicevamo, i bambini e gli adolescenti: anch’essi costretti, quasi ce ne fosse bisogno, a dipendere integralmente dagli strumenti informatici per continuare il proprio percorso scolastico ed educativo, oltre per tessere le relazioni sociali ed amicali con i propri coetanei. L’era digitale sicuramente ha già preparato i nostri figli ad essere competitivi e svegli, come noi non eravamo alla loro età, ma è altrettanto vero che la scuola e la socializzazione non possono trovare surrogati in nessuna forma di apprendimento o relazione offerte dagli strumenti informatici.
Questi ultimi, poi, in molte aree periferiche del Paese sono del tutto assenti o non utilizzabili, soprattutto nelle famiglie meno abbienti, con conseguenti ulteriori ripercussioni psicologiche di isolamento e accrescimento delle diseguaglianze tra i ragazzi. D’altronde, la scuola distanziata forse fa andare avanti nei programmi, ma azzera tutto l’intorno sociale, amicale, sentimentale che fa ricordo e che nella vita adulta viene custodito come esperienza preziosa. Andare a scuola, quindi, non è solo apprendere una lezione, è esperienza sociale, senza la quale la società finisce e la stessa solitudine rischia di perdere la sua bellezza. Tornando ai bambini, la scelta, a volte necessaria, a volte di comodo, della didattica a distanza ha di fatto avuto ripercussioni non solo sulla loro delicata fase di crescita e relazione con il mondo dei coetanei e dei professori ma anche sulle mamme, ancora un volta colpite nel loro difficile compito di conciliare gli affetti e l’attività lavorativa.
Da questo punto di vista, sono numerose le testimonianze di donne che hanno dovuto lasciare del tutto o ridurre considerevolmente il loro impegno lavorativo per seguire i propri figli durante la DAD, supplendo quindi anche ad una attività di competenza della Scuola. Anche su tale aspetto, i cosiddetti bonus baby sitter o aiuti familiari si sono rivelati mere promesse di facciata, mentre per mesi interi sono state le mamme a dover farsi carico del lavoro domestico e dell’educazione e formazione dei figli, rinunciando ancora una volta alla propria individualità ed alla propria indipendenza economica e lavorativa.
Ed invece non bisognerebbe dimenticare che sotto i panni di madri e figlie ci sono anche quelli di lavoratrici e di professioniste. Occorre, perciò, che le competenze femminili vengano valorizzate perché il mondo del lavoro non può fare a meno delle donne, in tutti gli ambiti lavorativi, come avviene negli altri Paesi europei. Mi viene in mente una frase di Margaret Thatcher, pensata per la politica ma adatta a qualsiasi tipo di attività umana: “Se vuoi che qualcosa venga detto, chiedi ad un uomo. Se vuoi che qualcosa venga fatto, chiedi ad una donna”.
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