Io mi sento italiano
di Michele Bartolo-
Recitava una vecchia canzone di Giorgio Gaber: “Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”. Il concetto di italianità, il senso di appartenenza ad una Nazione, ad una storia, ad una cultura che accomuna tutto il Paese si è riscoperto, come succede spesso, in occasione della recente vittoria ai campionati europei di calcio della selezione italiana, guidata dal CT Mancini. In questa occasione, come capitato per le grandi vittorie del passato, tutti, nessuno escluso, tifosi e non tifosi, appassionati di calcio e persone anni luce distanti da quel mondo, si sono sentiti uniti e legati dalle medesime emozioni, dallo stesso sentimento, orgogliosi di essere italiani, avvertendo come propria la vittoria di questo gruppo di ragazzi.
In modo particolare, poi, al di là degli aspetti meramente economici e di business, che nel corso di questi anni hanno fatto allontanare molti dalla passione per il calcio e per i valori dello sport in generale, l’apoteosi della vittoria e il significato profondo del superamento di questa sfida sono stati esaltati ed amplificati dal contesto in cui sono maturati. La vittoria del Mundial spagnolo con le epiche sfide vinte contro Brasile ed Argentina, il cielo azzurro sopra Berlino del 2006 sono i fulgidi esempi del passato, in cui il raggiungimento della vittoria si è coniugato alla consapevolezza di avere compiuto un’impresa inizialmente proibitiva ed impossibile.
Anche oggi, nel 2021, la vittoria di questi campionati europei suona come un miracolo italiano, compiuto sempre in condizioni difficili, dopo la tempesta sportiva e non solo che ha afflitto il Paese negli anni appena trascorsi e nell’ultimo periodo. Aver vinto in terra straniera, infatti, nel tempio del calcio rappresentato dallo stadio di Wembley, contro tutti i pronostici e con un tifo contrario, assordante e smisurato, di centinaia di migliaia di tifosi inglesi, assiepati l’uno sull’altro, in dispregio a qualsiasi forma di distanziamento, aver vinto questa sfida, quando più volte ci è sembrato di perdere, è a tutti gli effetti il miglior messaggio promozionale dell’italianità e di cosa significa essere italiani.
Anzi, questa esperienza dimostra ancor di più che forse è il caso di emanciparsi, di diventare grandi, di finirla con gli stereotipi sugli italiani ma soprattutto di iniziare a credere nelle nostre potenzialità, abbandonando ogni forma di stupida emulazione di ciò che non è nostro e non ci appartiene. Dobbiamo riscoprire, infatti, la consapevolezza di noi stessi, la stessa consapevolezza che ci fa esaltare ed esultare di fronte a queste inaspettate e coinvolgenti vittorie. Forse è il caso di smetterla di nutrirci di esterofilia e di attribuire ad altri mondi e ad altre culture una superiorità verso la nostra che non solo questi popoli non hanno ma che addirittura mostrano di non riuscire a comprendere. Per tornare alla finale degli Europei di calcio, quindi, tutti abbiamo visto il comportamento degli inglesi, dei loro tifosi, del loro popolo e dei loro massimi rappresentanti.
Eppure, nell’immaginario collettivo nostrano, ancora si parla di fair play, gioco corretto, per indicare la capacità di essere equilibrati e rispettare le regole nei comportamenti umani e sociali, oppure di aplomb anglosassone, per omaggiare il popolo di oltremanica di una sorta di superiorità intellettuale e compostezza innata, che dovrebbe consentirgli di avere sempre autocontrollo ed essere distante da ogni forma di cieca esaltazione o aberrante violenza. Lo stereotipo opposto, invece, discende dalle parole di Churchill, che diceva che gli italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio. Mettere a confronto questi preconcetti, questi pregiudizi sull’uno e sull’altro popolo, ci aiuta a comprendere come sia sempre sbagliato giudicare senza conoscere oppure rifiutare di guardare in faccia alla realtà per rifugiarsi nella comoda via di uscita del luogo comune.
Ancora una volta ci aiuta a definire il concetto il grande filosofo e psichiatra Carl Gustav Jung:“Pensare è difficile. Per questo la maggior parte della gente giudica”. Perciò, tornando alla realtà, alle immagini che tutti abbiamo visto, il mondo si è capovolto rispetto ai luoghi comuni: gli italiani, infatti, non hanno perso ma hanno vinto una partita di calcio, mentre gli inglesi sembrava avessero perso una guerra, tanto da far scomparire d’incanto il loro tradizionale aplomb oltre che il tanto invidiato fair-play. Cosa è accaduto infatti? Le immagini le abbiamo viste e riviste: i giocatori britannici in campo si sono tolti in modo sprezzante ed incivile la medaglia d’argento ricevuta, gruppi di tifosi facinorosi hanno atteso gli italiani presenti per aggredirli e picchiarli, lo stesso principe William, massimo rappresentante della Casa regnante del Paese ospitante, guadagnava in fretta e furia la più vicina via di fuga per evitare di congratularsi con i vincitori e riconoscerne la cristallina affermazione, dimenticando anche le più elementari regole di buona educazione e galateo istituzionale, nell’ignorare la presenza del nostro Presidente della Repubblica, peraltro lasciato solo ed in una postazione non consona ad un Capo di Stato straniero.
Ma vi è di più: anche dopo la partita, anche i giorni successivi, non solo gli inglesi non si sono ravveduti, ma hanno fomentato una guerra personale verso l’Italia, a causa della mancata vittoria: i giocatori di colore che hanno sbagliato i rigori sono stati fatti oggetto di insulti e minacce a sfondo razzista; sono state promosse iniziative e firmate petizioni per rigiocare la partita, quasi che la vittoria dell’Italia non fosse stata il frutto di una supremazia e di una superiorità tecnica emersa per tutto l’arco della partita; inoltre, cosa ancor più esecrabile e meschina, sono stati boicottati i negozi e i ristoranti italiani, per punire un popolo che ha avuto l’ardire di meritare una vittoria calcistica ma, nella fantasia di questi esagitati, la contemporanea colpa di aver scippato la Coppa agli inglesi, che dovevano farla propria per diritto divino, a prescindere dalle leggi del campo.
Dobbiamo concludere, quindi, che spesso gli stereotipi danno una falsa rappresentazione della realtà e che non bisogna avere nessuna sindrome di inferiorità verso gli altri popoli. Sono tanti i simboli di italianità di cui possiamo e dobbiamo andare fieri: la moda italiana non è diventata famosa di recente, ma lo è da secoli.
La grande tradizione artistica del Rinascimento Italiano ha, infatti, esportato all’estero immagini di ideale bellezza e raffinatezza, in particolare grazie ai sontuosi abiti spesso raffigurati nei dipinti dei nostri artisti più famosi.
La cucina italiana è apprezzata in tutto il mondo e siamo gli unici a saper cucinare e rendere gustosi piatti semplici, che gli altri tentano maldestramente di imitare, come la pasta e la pizza. I nostri uomini sono molto eleganti e curati nell’aspetto fisico e la lingua italiana, che rappresenta secoli di storia e cultura, è la più passionale del mondo, amatissima all’estero per via di tutti i valori che evoca, dalla buona cucina, al design, all’amore. Come facciamo ad esserne sicuri? Basta guardarsi in giro quando si cammina per qualsiasi città all’estero: le probabilità di trovare insegne e scritte in italiano, anche solo qualche parola, sono altissime.
E’ rinomata e unanimemente riconosciuta la nostra caratteristica di avere il culto dell’accoglienza e trasmettere calore anche agli sconosciuti, sia essa la gentilezza fatta ad un amico o la cordialità mostrata ai turisti che visitano le nostre città. Forse a causa del turismo marittimo che ogni estate popola le nostre spiagge, tanto amate dal Nord Europa, quando un italiano va all’estero capita spesso che gli venga detto: “Sei italiano? Che bello! Mi piacerebbe un sacco vivere in Italia, c’è sempre il sole..!”.
In realtà, questo sentimento di ammirazione e di amore per l’Italia è lo stesso che noi abbiamo quando parliamo di un’isola felice, ad esempio la rappresentazione che sempre abbiamo avuto del mito americano e del sogno di poter raggiungere l’America, al di là dell’Oceano, quasi fosse la Terra promessa.
Ebbene, per tornare all’inizio del nostro ragionamento, forse conviene andare davvero in America per capire che il nostro sogno sta qui, simboleggiato dalla presenza del Sole che sempre ci accompagna. Probabilmente vivrà un’emozione particolare e si riempirà di orgoglio l’italiano che, come me, vivrà l’esperienza unica di salire sull’Empire State Building e ascoltare dalla voce della guida americana la descrizione della meraviglie di New York e, al termine di quell’elenco, udire quella stessa voce dire con tono sognante: “Questa è New York, questa è l’America ma quando tornerà in Italia non si dimentichi di salutarmi tanto Roma”. Parafrasando Gaber, io mi sento italiano e per fortuna lo sono.
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