Perché la vittoria dei Maneskin non è l’equivalente de “abbiamo abolito la povertà”
-di Pierre De Filippo-
Diceva un grande giurista che “l’elemento giuridico è come una lastra di ghiaccio che galleggia sull’elemento culturale”. Aveva ragione.
Ed è il motivo per il quale la politica è influenzata e si rifà a tutto ciò che, di culturale, un Paese esprime. Per l’Italia, il festival di Sanremo – il festival della canzone italiana – è quanto di più caratteristico ci possa essere, un concentrato di usi, costumi, mode, tendenze. Metodi e meriti che, spesso, hanno anticipato quelli sui quali si è impostato il dibattito politico successivo.
Faccio un esempio, per evitare di rimanere nel vago: nel 2009, Beppe Grillo – comico ligure, che aveva fondato un blog ed era il padre del Vaffa Day – afferma, tra il serio ed il faceto, di volersi candidare alle primarie del Partito Democratico (come si vede, aveva ragione Vico nel sostenere la validità dei corsi e ricorsi storici) e correre per la segreteria.
Gli risponde, categorico, Piero Fassino: “vuole fare politica? Fondi un partito e vediamo quanti voti prende”. Una frase decisamente invecchiata male: alle politiche del 2013, il Movimento 5 Stelle ottiene il 25% alla Camera.
L’anno successivo, il 2010, assistiamo ad una delle più caotiche e particolari edizioni del festival: lo conduce Antonella Clerici e direttore d’orchestra è il capelluto Marco Sabiu. Giunti alla serata finale, i professori d’orchestra arrivano ad accartocciare i propri spartiti e a lanciarli sul palco, in segno di protesta. Quale fu il casus belli ? L’estromissione dal podio della canzone di Malika Ayane – che loro ritenevano musicalmente eccelsa – e la vittoria di Valerio Scanu, da poco sfornato dalla scuderia di Maria De Filippi.
Cos’altro era, questo conflitto tra esperti della musica e televoto da casa, se non lo scontro – in nuce – tra l’élite ed il popolo? E cos’altro era, quella frenesia di premiare il ragazzo del momento, se non la plastica manifestazione di quanto la sovranità popolare possa tracimare in populismo?
Come vedete, c’è tutta la cultura italiana, i nostri pregi ed i nostri difetti, la nostra genialità e la nostra volubilità.
Per qualche anno, questo divario si amplia: Shade, ad esempio, altro ragazzetto alle prime armi, dichiara candidamente di essere andato a Sanremo semplicemente per farsi propaganda e, nemmeno tanto tra le righe, paragona il festival a – per citare la meravigliosa interpretazione di Virginia Raffaele nei panni di Carla Fracci – “una storica sagra”.
È la transizione.
Quella fase, ben ricorrente in politica, in cui “gli dei non ci sono già più ma Cristo non è ancora arrivato”, per citare la Yourcenar. È il fisiologico adattamento di cui necessita ogni cambiamento.
Spesso ciò avviene con violenza – aveva ragione Marx –, lo vediamo quotidianamente in politica, in cui i toni sono sempre più alti e sempre più sguaiati, e lo vediamo anche nella musica. Però, poi, arriviamo ad oggi, alla vittoria dei Maneskin e del loro rock estremo. Che può sembrare, questo è evidente, il punto terminale di una rivoluzione compiuta e, invece, è esattamente l’opposto. È il momento di massima istituzionalizzazione, di massima fusione tra il “vecchio” ed il “nuovo”.
Le lacrime di Damiano – affasciante, tenebroso, riccioluto, di quelli che, per capirci, non devono chiedere mai – sono esattamente l’opposto delle braccia alte ad inneggiare l’abolizione della povertà su qualche balcone. Perché in un caso, il primo, c’è stata la piena e profonda e autentica comprensione e consapevolezza di ciò che stava avvenendo: di aver vinto il Festival, di essere passati alla storia, di aver cantato per vincere e non solo per partecipare; dall’altra, la piena e profonda e autentica inconsapevolezza, incoscienza dei ruoli, dei momenti, della dignità personale.
I Maneskin hanno compiuto la loro rivoluzione perché hanno dimostrato di essere umili.
I grillini hanno fallito la loro rivoluzione perché hanno dimostrato di essere arroganti.
E, per rimanere in tema, che la canzone illumini molta parte della classe dirigente nostrana. Spesso, è meglio stare zitti e buoni e lavorare.