4 febbraio 1912: il tragico salto nel vuoto del sarto volante
Il sogno di volare è tra i più antichi che l’uomo abbia mai accarezzato. Ne sono testimoni i vari miti presenti in ogni cultura come quello di Icaro. Suo padre, Dedalo, fu l’artefice del labirinto del Minotauro a Creta, e, qui rinchiuso con il figlio per ordine del re Minosse, unì piume di uccello creando delle ali tenute insieme dalla cera d’api, per permettere al figlio Icaro di fuggire. Ma il giovane, contravvenendo alle raccomandazioni paterne, volò troppo in alto, troppo vicino al sole che sciolse la cera delle ali facendolo precipitare nel mar Egeo.
Tuttavia per trovare un approccio sistematico al problema del volo, bisogna arrivare agli anni del Rinascimento ed agli studi di Ibn Firnas e a quelli di Leonardo da Vinci. Studi che non portarono però ad alcun prototipo reale. Alla fine del XVIII secolo si giunse ai primi risultati con la realizzazione delle mongolfiere. Ma per giungere al volo di macchine più pesanti dell’aria bisognò attendere gli albori del XX secolo.
Parallelamente al sogno del volo viaggiava anche l’idea di uno strumento che permettesse ad un oggetto in caduta di attutire gli effetti della gravità. In gergo tecnico un tale strumento è definito come deceleratore aerodinamico, un sistema cioè in grado di imprimere ad un corpo in caduta libera nell’atmosfera, una forza contraria a quella dell’attrazione gravitazionale, rallentando così la discesa al suolo, tramite la resistenza aerodinamica nel fluido aeriforme dell’atmosfera.
Tale sistema è indicato come paracadute. La prima descrizione di un simile oggetto la si ritrova in un disegno di un autore anonimo italiano, risalente al 1470 e conservato presso la British Library.
Anche su questo argomento abbiamo un contributo di Leonardo, che in disegno del famoso Codice Atlantico, del 1485, rappresenta un paracadute di forma piramidale, realizzato in lino inamidato. Nella nota relativa lo scienziato scrive: –Ognuno si potrà gittare da qualsiasi altezza senza rischio alcuno-.
La sua idea venne riprese un secolo dopo dal veneziano Fausto Venanzio ed è mostrato in un disegno in cui si vede un uomo appeso ad un paracadute di forma conica. Pare, tuttavia, che nemmeno il Venanzio abbia mai realizzato un vero e proprio prototipo.
Il primo a condurre esperimenti con l’utilizzo di prototipi da lui stesso realizzati fu il francese Louis Sebastien Lenormand. Egli si lanciò con un suo paracadute dotato di un telaio rigido, dall’osservatorio di Montpellier. Era il 26 dicembre 1783. Tra la folla che assisteva all’esperimento vi era anche Joseph Michel Montgolfier. Lo scopo di Lenormand era quello di mettere a punto un sistema che permettesse alle persone rimaste intrappolate in un edificio in fiamme di potersi mettere in salvo, saltando dalle finestre.
Il primo a pensare al paracadute per lanciarsi da un oggetto in volo fu un altro francese, André Jacques Guerin. Questi mise a punto un paracadute in seta privo di intelaiatura e si lanciò dalla cesta di una mongolfiera, da un’altezza di circa 900 metri. Era il 1797 ed il suo paracadute era il primo ad utilizzare una semicalotta sferica. La forma attuale del paracadute si deve al russo Gleb Katalnikov, che ottenne il brevetto nel 1912.
In quello stesso periodo prese ad applicarsi allo studio di un paracadute l’austriaco Franz Reichelt. Nato a Vienna nel 1879 e nel 1898 si era trasferito a Parigi, era un sarto di professione ed a Parigi mise su una boutique di abbigliamento femminile al numero 8 di rue Gaillon. L’impresa conobbe un discreto successo e divenne il punto di riferimento delle signore della buona società austriaca in visita nella capitale francese.
Ma Reichelt nutriva da sempre una passione per il volo e nel 1910 prese a studiare la possibilità di realizzare un suo modello di paracadute. Influenzato forse dalla sua professione cominciò a studiare una tuta che in caso di caduta permettesse a chi la indossava di poter planare dolcemente verso il suolo. I suoi primi modelli furono da lui provati lanciando dei manichini con la sua tuta dal quinto piano del palazzo in cui abitava a Parigi. I primi esperimenti si rivelarono incoraggianti ed egli proseguì nei suoi tentativi, cercando di mettere a punto una tuta da far indossare ad un uomo. Incontrò però non poche difficoltà legate al fatto che i suoi modelli avevano un peso eccessivo vicino ai 701 chilogrammi ed erano dotati di una calotta pesante non troppo resistente.
Tali difetti gli furono fatti notare dai soci dell’Aero Club cui aveva mostrato i suoi modelli. Ma Reichelt era testardo e non voleva demordere. Per questo quando lo stesso Aero Club lanciò un concorso per la realizzazione di un nuovo paracadute, il nostro, conosciuto ormai come “il sarto volante” realizzò nuovi modelli più leggeri. Tuttavia, i suoi esperimenti si concludevano tutti con clamorosi insuccessi ed i suoi manichini lanciati dal terrazzo di casa andavano a sfracellarsi violentemente sul marciapiedi. Molti furono quelli che gli consigliarono di smettere, ma invano.
Ad un certo punto il nostro sarto volante decise che l’insuccesso dei suoi esperimenti era dovuto al fatto che l’altezza da cui in manichini erano statu lanciati fosse troppo ridotta. Mise dunque a punto una ulteriore modello del peso di 254 chilogrammi e con una superficie planante di 12 metri quadri e decise di provarlo su se stesso. Si lanciò da un’ altezza di circa 10 metri, ma anche stavolta l’esperimento non ebbe esito favorevole e Rechelt precipitò rovinosamente verso il suolo. Per sua fortuna cadde su un covone di fieno che gli salvò la vita. Il nostro sarto continuò, tuttavia, i suoi tentativi e quando ebbe messo a punto un modello del peso di soli 9 chili con una superficie planante di ben 30 metri quadri, decise di chiedere alle autorità il permesso di effettuare un esperimento col lancio di un manichino dalla Tour Eiffel. E qui si potrebbe affermare coi nostri antichi padre che “Deus dementat quos perdere vult”.
Ottenuta l’autorizzazione Reichelt comunicò a tutta la stampa che avrebbe effettuato una prova di lancio dalla Tour Eiffel. L data issata era quella del 4 febbraio 1912. Quella mattina si fece accompagnare sotto la Torre da alcuni amici in automobile. Ma quando scese tutti poterono osservare che era lui stesso ad indossare la tuta. Il quotidiano “Le Gaulois”, scrisse:
“Ci si stupì un po’ nel non vedere il manichino annunciato … D’altronde in materia di aviazione non si è forse abituati a tutte le prodezze e a tutte le sorprese?”
Molti furono coloro che cercarono di convincerlo a non rischiare, ma Reichelt rispondeva:
“Vous allez voir comment mes 62 chilos e mon parachute vont donner à vos arguments le plius decisif des dementies.”
Alle otto in punto raggiunse la prima piattaforma della Torre, pose uno sgabello sopra uno dei tavoli del ristorante lì accanto e vi montò sopra. Poggiò un piede sulla balaustra e osservò la direzione del vento. Si volse verso gli astanti e sorridendo disse : “A bientôt” Attese poi qualche minuto ed infine si lanciò nel vuoto, da un altezza di 57 metri. Ad assistere vi erano non più di trenta persone, poiché la mattina era gelida, con temperature al di sotto di 0 °C e con una fredda brezza che investiva il Campo di Marte. Quella piccola folla assistette al tragico volo. Il paracadute di Rechelt non si aprì, la tela gli attorcigliò intorno al corpo ed il suo atterraggio fu annunciato da un tonfo sordo.
Il quotidiano Le Figaro, così scrisse dell’incidente il giorno seguente: L’urto fu terribile, un colpo sordo di una brutlià furiosa. All’impatto il corpo rimbalzò e ricadde. Ci si precipitò a soccorrerlo. La fronte insanguinata, gli occhi aperti, dilatati dal terrore, le membra spezzate. François Rechelt non dava più segni di vita.
Alcune fonti affermarono che l’autopsia poi eseguita avesse accertato che Reichelt era stato vittima di un arresto cardiaco, durante la caduta, forse per la paura e che fosse giunto al suolo già cadavere.