Jojo Rabbit: Chi ha paura di Adolf Hitler?
-di Francesco Fiorillo-
In occasione del Giorno della Memoria, ricordiamo l’ultimo gioiello di Taika Waititi, una commovente commedia su un bambino in cerca della sua identità ai tempi della Gioventù hitleriana
Taika Waititi è pazzo. Il regista e attore neozelandese è malato di quella follia che sbaraglia la ragione, demolisce gli schemi e ti arriva dritta al cuore. Ma si tratta di una pazzia razionale: le sue pellicole non sono solo spassosissime, ma intelligenti, originali, irriverenti. La sua creatività, simile a quella di un bambino entusiasta, si combina con un geniale senso dell’umorismo e una grande sensibilità, dando vita a film sempre divertenti e sorprendenti.
Jojo Rabbit, il suo lavoro del 2019 liberamente tratto dal romanzo Come semi d’autunno di Christine Leunens, è la dimostrazione che la sua caratteristica vena demenziale, surreale e dissacrante, può anche essere messa al servizio di una pellicola che tratta di un tema oscuro come il plagio della gioventù ad opera della propaganda nazista. Quello che ne scaturisce è un film divertente ed emotivo, che nella migliore tradizione delle commedie sulla Shoah (come Il grande dittatore, La vita è bella o Train de vie) arriva al cuore del dramma con leggerezza e poesia.
Johannes, detto “Jojo”, è un bambino di dieci anni che vive con la madre Rosie nella germania nazista del 1945. Orfano di padre in seguito alla guerra, Jojo ha instaurato un legame fortissimo con la mamma, che gli fa da sorella, amica e confidente. Ma non è abbastanza per colmare l’assenza di una figura paterna, e così il bambino riempie il suo vuoto emotivo assorbendo avidamente i dettami del regime nazista, dal quale viene ideologicamente adottato all’interno della “Gioventù hitleriana”.
«Io voglio una gioventù brutale, tiranna, intrepida e crudele» diceva Hitler nel 1933, e su queste basi si innesta la formazione impartita al bambino dai tutori dell’organizzazione. Le menti vergini del protagonista e dei suoi compagni sono invase da precetti dogmatici: idolatrare il Führer, contribuire alla superiorità della Germania e coltivare forza e crudeltà. Come una lente che distorce ogni prospettiva, il partito nazista cerca l’adesione completa alla sua visione del mondo, coltivando i suoi adepti fin dalla tenera età.
Ma Jojo, per quanto desideroso di sentirsi parte di qualcosa di grande, è un bambino sensibile e insicuro, riluttante a sposare completamente insegnamenti così spietati: quando gli viene imposto di uccidere un coniglio indifeso si rifiuta di farlo, guadagnandosi il disprezzo dei compagni e il soprannome di “Jojo Rabbit”. Per fortuna, ad aiutarlo nei suoi momenti di maggiore sconforto, c’è sempre il suo amico immaginario: una versione buffa e sopra le righe di Adolf Hitler (interpretato dallo stesso Waititi), una specie di “padre surrogato” evocato dall’inconscio del bambino, sempre pronto a guidarlo e consolarlo.
Il mondo di Jojo viene sconvolto quando scopre che nella sua casa si nasconde un’adolescente ebrea, Elsa. Di colpo, è faccia a faccia con un vero “mostro”, così come gli è stato dipinto dai suoi insegnanti: un essere diabolico e alieno, che nella fervida immaginazione del bambino è simile ad una strega. Il senso del dovere imporrebbe a Jojo di consegnare la ragazza alla Gestapo, ma lei riesce a convincerlo che, così facendo, farebbe arrestare anche la madre Rosie. Nasce così una sorta di patto di convivenza fra i due: il bambino aiuterà Elsa a nascondersi, ma in cambio lei dovrà rivelargli tutti i suoi “segreti ebrei”, così che lui possa raccoglierli in un libro e ottenere così il rispetto dei suoi compagni.
Per la prima volta, Jojo si trova ad andare contro tutto ciò che gli è stato insegnato, collaborando con un nemico del regime. E così, mentre Elsa si diverte ad inventare storie sui poteri sovrannaturali degli ebrei, il bambino la ascolta affascinato: a poco a poco, capisce che quella ragazzina non è tanto diversa da lui, e comincia a provare dei sentimenti nei suoi confronti. Le sue convinzioni, un tempo granitiche, cominciano a vacillare, tanto da attirargli le ire del suo amico immaginario Adolf, che cerca di metterlo in guardia dal pericolo che sta correndo.
Ma è soprattutto la fedeltà e l’amore verso la madre a mettere in crisi il piccolo Jojo: come può accettare l’idea che lei stesse nascondendo un’ebrea a sua insaputa? Come può perdonarla per essere una traditrice della Germania? Purtroppo, il mondo interiore del bambino è destinato a crollare definitivamente in modo drammatico: mentre la guerra raggiunge il suo culmine, con americani e sovietici alle porte della città, Jojo scopre che la mamma è stata giustiziata come oppositrice del regime (in una delle scene più toccanti del film), e che il vero Adolf Hitler si è suicidato nel suo bunker.
La perdita delle due principali figure di riferimento annienta il protagonista: ora è davvero solo. O forse no. C’è ancora Elsa, con la quale può sognare di fuggire lontano, in un mondo liberato dall’incubo nazista. Finalmente privo di condizionamenti, Jojo scaraventa dalla finestra il suo amico immaginario, abbandonandosi ad una danza gioiosa per le strade invase dai soldati americani.
Tutto appare in uno stato di grazia in questo film: da fotografia e scenografia (che strizzano non poco l’occhio a l’estetica colorata e vintage di Wes Anderson), alle interpretazioni toccanti e convincenti dell’esordiente Roman Griffin Davis (il piccolo Jojo), della veterana Scarlett Johansson (la madre Rosie) e del sempre irresistibile Sam Rockwell (nel ruolo del bonario capitano della Gioventù hitleriana, Klenzendorf). Straordinaria anche la prova dello stesso Waititi nel ruolo dell’amico immaginario Adolf: il regista e attore riesce a dare vita ad una caricatura straniante ed esilarante, che a poco a poco (specie nelle ultime scene) rivela la sua natura oscura e inquietante.
Forse non siamo al cospetto di un capolavoro, ma sicuramente di un film intelligente, divertente (non era facile, dato il tema trattato) e soprattutto innovativo, capace di sganciarsi in modo selvaggio dal romanzo dal quale è tratto (il regista ha vinto nel 2020 sia un Oscar che un premio BAFTA per la Migliore sceneggiatura non originale).
Una pellicola che con la sua creatività ci insegna a superare il trauma storico della Shoah usando proprio ciò che l’Olocausto ha rischiato di distruggere: la fantasia, l’umorismo, l’amore.
