Oscar 2020: il trionfo del cinema internazionale e i grandi assenti
La Notte degli Oscar del 9 febbraio ci ha riservato numerose sorprese. E qualche delusione.- di Francesco Fiorillo-
Non è possibile parlare di Cinema senza parlare degli Academy Awards: il “Premio Oscar” è La cerimonia per eccellenza, la vetrina più prestigiosa e antica della settima arte (nata nel 1929, tre anni prima del Festival di Venezia). Nel bene e nel male, da più di novant’ anni stabilisce cosa è rilevante e cosa non lo è, quali sono le pellicole che entreranno nella storia e quali sono quelle che si dissolveranno nella nebbia indistinta dei “buoni film”.
Giudizi non sempre condivisibili, e spesso schiavi di logiche di mercato e campagne promozionali: ma la celebre statuetta dorata resta il dono più ambito nel mondo cinematografico, il simbolo di chi è “arrivato”, e ha conquistato un posto nel nostro pantheon moderno. Nuovi Dei che nutrono il bisogno umano di storie, di personaggi, di emozioni. Anche per noi italiani.
Molti sono stati i momenti leggendari della cerimonia entrati nell’immaginario del nostro Paese: impossibile dimenticare l’Oscar alla Carriera di Federico Fellini nel 1993 (e le lacrime di Giulietta Masina), o l’Oscar per il Miglior Film Straniero a “La vita è bella” di Roberto Benigni nel 1999 (e la corsa del regista verso il palco, passando sopra le teste dei divi).
Celebrata come da storica tradizione presso il Dolby Theatre di Hollywood, questa 92esima edizione si è svolta, per il secondo anno di seguito, senza un presentatore ufficiale. Dopo il collaudo positivo di questa formula nel 2019 (in seguito alla rinuncia alla conduzione di Kevin Hart), anche questa serata ha visto avvicendarsi sul palco ospiti, montaggi e numeri musicali sempre diversi, in una sarabanda monumentale di tre ore e mezza (forse eccessive).
Ma questa Notte degli Oscar entra di diritto nella storia: per la prima volta in assoluto, il premio per il Miglior Film è andato ad una pellicola non in lingua inglese. Parasite, del sudcoreano Bong Joo-ho (già autore del bellissimo Memories of murder) si è infatti aggiudicato la statuetta più prestigiosa, portandosene a casa altre tre (per Miglior Regista, Miglior Sceneggiatura Originale, e Miglior Film Internazionale).
La pellicola ha sbaragliato tutti i concorrenti, dimostrando che quando si parla di Cinema, non esistono confini geografici: persino nella roccaforte americana di Hollywood, un film straniero può conquistare il posto di primo piano. Il regista di Parasite è salito sul palco un totale di tre volte, e fra i ringraziamenti ha anche omaggiato Martin Scorsese, citando una sua affermazione: “Ciò che è più personale, è più creativo”.
E dire che il grande favorito come Miglior Film era 1917, di Sam Mendes; la pellicola di guerra si è invece aggiudicata “solo” tre statuette per premi tecnici: Miglior Fotografia, Miglior Sonoro e Migliori Effetti Speciali (battendo in quest’ultima categoria Avengers: Endgame). Bene comunque, anche se ci si aspettava di più per un veterano come Mendes, Miglior Regista nel 2000 con lo splendido American Beauty.
Altro importante conseguimento è stato il meritatissimo Oscar al Miglior Attore Protagonista per Joacquin Phoenix: la sua prova in Joker è stata veramente straordinaria, e gli ha consentito di eclissare i concorrenti Leonardo DiCaprio (C’era una volta a…Hollywood), Adam Driver (Storia di un matrimonio) e Jonathan Pryce (I due papi). C’erano molte aspettative intorno al film di Todd Phillips (aveva ben 11 candidature), ma è risultato evidente che la performance di Phoenix fosse il suo unico vero punto di forza.
Poco o niente per Netflix, dal 2019 nuova presenza agli Oscar: una realtà che nel corso degli anni ha superato i confini degli schermi dei tablet e delle TV, fino a sedersi alla stessa tavola dei grandi studios. Lo scorso anno, con una portentosa campagna di marketing, la società cercò di spingere Roma di Alfonso Cuarón come Miglior Film, ma la pellicola perse la palma a favore di Green Book di Peter Farrelly; quest’anno, su 24 candidature (più di ogni altra casa di produzione), si è dovuta accontentare di due premi di consolazione.
Gli Oscar di Miglior Attrice Non Protagonista per Laura Dern (Storia di un matrimonio) e Miglior Documentario per Made in USA – Una fabbrica in Ohio, non aiutano Netflix a lenire la scottatura per il disinteresse verso il suo cavallo di battaglia: The Irishman. La pellicola di Scorsese, infatti, è stata completamente snobbata, nonostante fosse in gara con 10 candidature: un segno, forse, che i tempi non sono ancora maturi per il cinema d’autore prodotto sulle piattaforme di streaming.
Purtroppo, le assenze eccellenti non finiscono qui: ad esempio, c’è quella delle donne. Tante sono state le registe escluse dalle nomination quest’anno (Lulu Wang, Greta Gerwig, Lorene Scafaria, Marielle Heller, Alma Har’el e Mari Diop), tanto da spingere l’attrice Natalie Portman a presentarsi sul palco indossando un mantello di Christian Dior con tutti i loro nomi ricamati. Un modo per dare loro visibilità e omaggiarle, anche perché l’esclusione delle donne alla regia avviene per il secondo anno consecutivo. Complessivamente, sono stati solo due i premi “al femminile”: l’Oscar per i Migliori Costumi a Jaqueline Durran (Piccole donne) e quello per la Migliore Colonna Sonora Originale ad Hildur Guðnadóttir (Joker, la prima donna in 23 anni a vincere in questa categoria).
Dispiace anche per l’assenza di alcuni nomi importanti dal segmento “In Memoriam”, il video-tributo che omaggia le personalità del mondo dello spettacolo scomparse nell’ultimo anno. Il montaggio, un momento tradizionale e commovente della cerimonia, ha ricordato giustamente (fra gli altri) Terry Jones dei Monthy Python, Kirk Douglas, Franco Zeffirelli, Doris Day e Kobe Bryant, ma ha escluso celebrità come Luke Perry (tra l’altro presente con un ruolo minore in C’era una volta a…Hollywood) e Michael J. Pollard (che ebbe una nomination come Miglior Attore Non Protagonista nel 1968 per Gangster Story).
Il bilancio per questa edizione è quindi ambiguo: se da una parte Hollywood è sempre più aperta al cinema internazionale, dall’altra stenta a modernizzarsi, mostrando una scarsa varietà di generi ed etnie fra i suoi candidati e una riluttanza a dare spazio alle nuove forme di cinema. Un gotha beato e splendente, ancora troppo simile ad una gabbia dorata.
