Il Convento di Santa Sofia e la Chiesa dell’Addolorata. Una lunga e complessa evoluzione creativa.

Ubicato in prossimità della cosiddetta “Nova Civitas”, in quell’area territoriale sede anche della regia del principe longobardo Guaiferio, e accompagnato dalla chiesa di San Massimo, in un momento di forte sviluppo urbano, il Monastero di Santa Sofia ha origini non molto chiare, nonostante esso sia nominato già in un documento del 1058 custodito nella Badia di Cava: “ecclesia sancte sophie, que constructa est intra hanc civitatem secus plateam que pergit super ecclesiam sancti Maximi”. L’antico convento era costituito da due corpi di fabbrica collegati da un passaggio caratterizzato da una grande volta di copertura che ancora sovrasta Via Trotula de’ Ruggiero e da un giardino gentilizio delimitato anche, per un tratto, dalle antiche mura longobarde. L’ingresso era costituito da un portale in piperno grigio con arco a sesto ribassato. Attualmente il monastero si suddivide su tre piani collegati tra loro mediante uno scalone voltato. Al pianterreno sono presenti alcune sale con volte a botte ed altre a padiglione, mentre al piano superiore riscontriamo un corridoio con volta a botte che asserviva gli alloggi. Da Via Trotula de’ Ruggiero si può ammirare una quadrifora traforata in pietra e stucco con una serie di archi intrecciati risalente, con molta probabilità, al XIII secolo. Inizialmente nato come convento maschile per poi passare nel XII secolo alle suore benedettine, il monastero rimase sotto la giurisdizione dell’Abbazia di Cava fino al 1575 allorquando passò sotto l’Arcivescovo di Salerno. Nel 1592 il luogo sacro fu affidato, infine, dall’Arcivescovo Mario Bolognini ai Padri Gesuiti. Annessa al Convento è presente la chiesa dell’Addolorata che sorge su un’antica chiesa dedicata al SS. Salvatore, di cui, alcuni ambienti, sono ancora presenti sul Vicolo Santa Sofia. Riscontriamo, difatti, 3 spazi con volte a botte e 3 con volte a crociera che costituivano rispettivamente una delle navate laterali e la navata centrale. Come ben documenta M. A. Franciulli, a partire dal XVI secolo, l’ampliamento operato dai Gesuiti comportò delle modifiche profonde, tra le quali la realizzazione di una chiesa più grande raggiungibile dalla piazza esterna attraverso una scala, costituita da una unica grande navata con 5 cappelle per lato. L’iter progettuale fu molto lungo come anche la sua realizzazione, nel corso della quale assistiamo alla soppressione dei Gesuiti nel 1778 e il subentro dei Carmelitani che dedicarono la chiesa alla Madonna del Carmine. Nel 1716 venne realizzata la cupola della chiesa, in corrispondenza del transetto, mentre la chiesa continuava la sua graduale e lenta trasformazione. L’edificio sacro si concretizza definitivamente in una grande navata centrale, con volta a botte, due cappelle laterali per lato, un altare centrale e un coro. Nel 1808, dopo la soppressione del Convento, la struttura venne proposta come sede del Tribunale Civile. C’è un carteggio inedito custodito nell’Archivio di Stato di Salerno di cui si descrivono le precarie condizioni statiche della cupola e la conseguente volontà di abbatterla. La cupola emisferica dell’allora chiesa di Santa Maria del Carmine, in tipico stile barocco, a causa di numerose lesioni presenti, venne abbattuta nell’estate del 1818 per volere dell’Intendenza del Principato Citra (sotto la supervisione della Direzione Generale di Ponti e Strade). La ditta appaltante del signor Luigi Lanzara per una spesa di 648 ducati napoletani (corrispondenti a 32.400 euro) demolì la cupola. Nel carteggio sono presenti uno schizzo della cupola e un suo rilievo più accurato. Si apprende che il suo diametro era di palmi 42 (pari a quasi 11 metri) mentre l’altezza, compreso il suo tamburo basamentale, era di palmi 37 pari a (9,62 metri). Il disegno evidenzia anche la lanterna posizionata sopra la cupola, alta complessivamente 23 palmi più 8 (pari a 8 metri circa), molto simile tipologicamente a quella posizionata sulla cupola della non lontana chiesa del Monte dei Morti. E’ presente, inoltre, un disegno relativo al progetto della nuova copertura detta “scodella” il cui costo corrispettivo era di 800 ducati (pari a 40.000 euro). La scodella presentava un diametro di 42 palmi napoletani corrispondenti a 11 metri e altezza di 10 e mezzo (pari a quasi 3 metri). Per sostenere le enormi spese vennero vendute la palla di rame e la croce di ferro posizionati sulla sommità della lanterna al mastro ramaio Matteo Siniscalco per ducati 57 (pari a 2850 euro). Tra il 1828 e il 1830 si stabilirono i lavori di ripristino della facciata e la scalinata che venne modificata richiamando uno stile tipico settecentesco con doppia rampa ricurva con balaustra e rotonda centrale. Solo tra il 1830 e il 1850, grazie all’Arcivescovo Marino Paglia, prima della riconsegna ai Gesuiti, la chiesa venne definitivamente recuperata e completata, con il nuovo pavimento, la costruzione della nuova cupola e il rifacimento della facciata che conserva comunque un aspetto seicentesco con il timpano triangolare, in alto, con una partizione orizzontale caratterizzata da un cornicione marcapiano e da lesene in senso verticale. Nel 1868 la chiesa passò alla Confraternita dell’Addolorata, mentre nel 1938 il Monastero fu adibito a scuola statale. Da qualche anno a questa parte il Complesso di Santa Sofia è diventato sede di numerose mostre d’arte di stampo anche internazionale: ricordiamo “Mediterraneo Mirò” del 2002, “Chagall. Opere grafiche” del 2003, “Caravaggio a Salerno” sempre del 2003, il “Global Warhol” tra il 2003 e il 2004 o ancora “Pablo Picasso. I luoghi e i Riti del Mito” nel 2004. Attualmente è presente un’interessante mostra multimediale su Van Gogh, organizzata da Alta Classe Project e promossa dalla ProCulTur con il patrocinio del Comune di Salerno. Non si tratta però di una presentazione delle opere originali dell’artista fiammingo ma di interessanti proiezioni che utilizzano il 3D mapping, grazie al quale si possono ammirare sette delle sue più importanti opere e farne anche parte di esse con un grande coinvolgimento emotivo dello spettatore.

Daniele Magliano

Architetto- giornalista che ama approfondire tematiche di architettura, urbanistica, design, ma anche di storia, evoluzione e curiosità riguardanti oggetti di uso quotidiano. Mi piace, in generale, l'arte della costruzione: riflesso del nostro vivere in quanto unisce passato, presente e futuro prossimo di una comunità.

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