Intervista a Max Stèfani, fondatore e storico direttore del periodico di musica rock Il Mucchio Selvaggio
La musica, come spesso mi capita di ripete, non è solo quella suonata, ma anche quella scritta e non mi riferisco a spartiti e tablature, ma penso alle tante riviste che già negli anni 70 hanno popolato (e in parte popolano ancora oggi) le nostre edicole e hanno in qualche modo formato ed informato molte generazioni di giovani appassionati. Internet ha cambiato le regole del gioco e il settore dell’editoria musicale vive, ormai da anni, una lunga crisi. Ne abbiamo parlato con un personaggio che è stato un vero pioniere in fatto di editoria musicale. Max Stèfani, fondatore e storico direttore del famoso mensile di musica rock “Il Mucchio Selvaggio”, ci racconta quegli anni e ci presenta i suoi ultimi libri.
Giornalista, fondatore e direttore di diverse iniziative editoriali musicali storiche e autore di diversi libri sul rock e alcuni suoi importanti esponenti. Parlaci del tuo ultimo libro e di quelli che lo precedono.
Il mio ultimo libro, California dream, parla di alcuni grandi musicisti americani, come Lowell George (Little Feat), Gram Parsons e Gene Clark (Byrds), Jackson Browne, Warren Zevon, Randy Newman. Colti nel loro periodo di maggiore qualità, ovvero fino al 1980. Musicisti tutto sommato poco noti in Italia, a parte Jackson Browne. Insomma la California anni 60/70. Per certi versi uno dei periodi più fecondi nell’evoluzione della musica popolare. È il terzo volume di una sorta di ‘storia del rock’, dalle origini a oggi. In effetti sono libri di ‘storia’ a tutti gli effetti. Fatti anche in modo molto particolare. Non sono saggi e tutto sommato neanche li scrivo io, in quanto faccio solo da raccordo a fatti successi. Un copia/incolla di quanto ha scritto la stampa a quei tempi e delle loro interviste. Secondo me l’unico modo per calarsi a 360 gradi in quell’epoca.
Più volte hai espresso il tuo pensiero dicendo che molti giornalisti non ne sanno nulla di rock, perché non hanno vissuto il fenomeno direttamente (ragion per cui nei tuoi libri racconti storie di rock con le parole e le interviste rilasciate dagli artisti). Secondo questa teoria, però, non si scriveranno più libri quando quelli che c’erano non ci saranno più. Non ti sembra una posizione eccessiva? Gli storici spesso si rifanno alle cose scritte da chi li ha preceduti anche per riformulare il pensiero e proporre nuove interpretazioni.
Ma infatti sono due modi differenti di scrivere dei libri. Una rilettura con il senno del poi di fatti passati, ha indubbiamente una sua importanza. Altrimenti non si potrebbe neanche scrivere più niente di Van Gogh o della Rivoluzione Francese. Sarebbe una fesseria. Però il rock, vista la sua vicinanza temporale, permette una possibilità che molte arti passate non hanno. Sentire cosa ne dicevano i contemporanei al momento in cui i fatti si sono svolti. Molti storici romani raccontavano dal vivo le gesta di Augusto ma erano pochi e spesso di parte. Immaginiamoci di avere la possibilità di sentire cosa diceva la gente dell’epoca… Sarebbe incredibile. Il rock (ma anche il cinema) lo permette. Fare i libri in questo modo è come viaggiare nel tempo. È un’esperienza molto bella anche per me che li costruisco e spero anche per chi li legge. Il mio pensiero, che riporti nella domanda, è quindi solo in parte vero. Ma la mia critica va più che altro alla saggistica italiana, che scrive cose di cui ha una conoscenza solo letteraria-auditiva. Sappiamo tutti che l’Italia è sempre stata lontana dal rock, forma di cultura prettamente anglo-americana che noi abbiamo vissuta male e in ritardo, come dietro una lente deformata. Visto che ho citati gli scrittori latini, è come se abitanti della Nubidia scrivessero di fatti accaduti a Roma sotto Adriano, senza esserci mai andati, limitandosi alle letture o ai resoconti di gente che aveva visitato Roma. Stessa cosa per un giornalista della Nuova Zelanda che oggi mi parla del calcio italiano non essendosi mai mosso da quelle lontane terre. Esempio: un libro scritto sul punk inglese da giornalisti italiani che non sono mai stati a Londra in quegli anni – 1976/1980 – sarà per forza una scopiazzatura, anche fatta bene per carità, di quanto già scritto da un giornalista inglese che quei tempi li ha vissuti dal vero. Vale anche per me se dovessi scrivere un saggio sul rock and roll degli anni ‘50. Però io almeno nella seconda metà degli anni sessanta stavo spesso a Londra, anche se questo non mi rende certo uguale a Chris Welch del ‘Melody Maker’, che quegli anni li viveva da protagonista. Beato lui. Infatti non mi azzardo a scrivere saggi. Differente se si comincia a parlare di musica dopo il 1985 quando tutti noi ‘critici’ italiani cominciammo a viaggiare di più e quindi più presenti.
Hai iniziato a scrivere di musica con Music Box, la sezione musicale di SUONO, una famosa rivista di hi-fi degli anni 70. Poi hai fondato il Mucchio Selvaggio. Forse il mensile specializzato in musica rock (e non solo) più famoso insieme allo storico Ciao 2001. Racconta ai nostri lettori più giovani la storia di questa pubblicazione. Come nasce la rivista e come si evolve fino a quando lasci la sua direzione.
Ci fu un prequel, che fu appunto la parte musicale all’interno della rivista di hi-fi ‘SUONO’. Come qualcuno sa, nei primi anni settanta ci fu in Italia il boom delle riviste di hi-fi. Che dura per tutti gli anni settanta e una parte degli ottanta. Vendite anche di 80-100mila copie al mese. Impensabili oggi per qualsiasi giornale. E le parti musicali all’interno erano composte anche di 30 pagine. Insomma notevole. In quegli anni l’editoria musicale italiana era dominata da ‘Ciao 2001’ che faceva il bello e il cattivo tempo. Nel bene e nel male. Se gli italiani s’innamorarono del progressive e della musica inglese, mettendo in secondo piano quella americana, il merito fu di ‘Ciao 2001’. Insomma 3-4 generazioni furono indottrinate. Sia ‘Muzak’ che ‘Gong’, ambedue mensili, durarono troppo poco per influenzare i gusti del pubblico. E così per altre riviste ‘piccole’ di quel periodo come ’Nuovo Sound’ etc. All’interno di ‘Music Box/Suono’ invece eravamo molto filo-americani, e seguivamo molto il mercato import. Vale la pena di ricordare che al tempo solo un 30% dei dischi anglo-americani venivano distribuiti sul mercato. Per gli altri ci pensavano le centinaia di negozi che trattavano import sparsi per tutta Italia. Una sorta di mercato parallelo. Con numeri molto alti. Dopo aver fatto i primi numeri di una rivista chiamata ‘Popster’, all’interno del Gruppo Suono, che pubblicava anche un mensile di nome ‘Stereoplay’, decisi di ampliare ‘Music Box’ facendolo diventare una rivista vera e propria. Un po’ perché avevo imparato come si facevano i giornali e volevo fare di testa mia (mai amato avere qualcuno sopra di me che mi dicesse cosa potevo e cosa non potevo fare) un po’ perché si poteva avere tutti più spazio.
Perché, secondo te, il Mucchio Selvaggio ha avuto successo. Quali erano i suoi punto di forza e i suoi punti deboli.
Mah, punti forza direi lo sguardo alla musica americana e al mercato import. Fu questa la differenza maggiore rispetto ai giornali dell’epoca, fossero Ciao 2001 o Rockstar. Tutti troppo imbalsamati o mainstream. Per il resto eravamo abbastanza ignoranti (come quasi tutti all’epoca) e scrivevamo un italiano da quinta elementare. Senza contare la qualità pessima della carta e l’impaginazione. In tutto e per tutto una ‘fanzine’. Ma l’importante era scrivere. Un po’ come il punk. Poi nel giro di 4-5 anni migliorammo la qualità del giornale e il Mucchio anni novanta, era veramente un giornale della madonna. Anche perché mischiammo sociale e politica alla musica in maniera anche violenta. Le denunce fioccavano. Potevamo veramente diventare un giornale importante come ‘Rolling Stone’ in USA o ‘Les Inrockuptibles’ in Francia, giornali partiti dalla musica e diventati incisivi nella società. Ma la musica, il rock soprattutto, in Italia è sempre stata considerata poca cosa. Sai quanti problemi avevo a trovare la pubblicità per un giornale chiamato ‘Il Mucchio Selvaggio’ negli anni settanta/ottanta? Mi chiudevano il telefono in faccia. E le pernacchie? Oddio, sarebbe successo lo stesso se si fosse chiamato ‘La pietra rotolante’. Siamo mentalmente chiusi. Eravamo, siamo tutt’ora, un paese chiuso, provinciale. Sempre un passo dietro gli altri. A parte la cucina, la moda e moto/macchine.
Sicuramente il Mucchio è stato molto importante, ma dopo il Mucchio… cosa c’è stato? E cos’è’ il tuo vecchio giornale adesso?
Mah, feci altri giornali come Rumore, Duel, Chitarre, Pulp, vari libri… insomma finché il mercato ci sorreggeva… poi a inizio anni novanta con il settimanale gratuito di ‘La Repubblica’ chiamato ‘MUSICA!’ e l’arrivo di internet cominciò per tutti la crisi. Dalla quale non ci riprendemmo più anche se fino al 2007-2008 il Mucchio rimase comunque una bella rivista. Sicuramente migliore di quella dei primi anni. Scritta meglio e ottima qualità grafica e di carta. Insomma un giornale serio. Facemmo anche 7-8 anni di settimanale, 1996-2004…. Folle ma divertente. Pensavo che potessimo fare in Italia una sorta di ‘Les Inrockuptibles’ francese ma erano due mercati differenti. Comunque quando lasciai il Mucchio nel 2011, due anni dopo feci OUTSIDER, bellissima rivista sull’esempio di ‘Internazionale’. Ma proprio quando stava andando in pari… è morto il mecenate. Peccato. D’altra parte puoi anche avere una Ferrari ma se non metti benzina… Ti fermi. E non ho trovato nessuno che volesse editarlo. Neanche quelli di ‘Internazionale’ che avevano i mezzi per farlo diventare grande (senza nessun investimento perché viaggiava da solo) ma non si fecero convincere. ‘Dobbiamo investire tutti i guadagni in ‘Rete’….Fessi. Adesso la mia vecchia creatura ‘Mucchio Selvaggio’, è solo una fotocopia sbiadita. Un giornaletto senza senso. Non ha neanche più un logo di testata decente. Ma come si fa? Il logo di un giornale deve essere in primo luogo VISIBILE e RICONOSCIBILE. D’altra parte lo dirige la mia ex segretaria che non è certo un genio dell’editoria. Sopravvive ma ha la metà delle pagine di ‘Blow Up’. Devo ammettere che vederlo ancora in edicola mi da fastidio.
Di tutta la gente che hai ‘scoperto’ facendola scrivere o comunque fatta arrivare al successo chi ricordi? Qualcuno ti ha deluso?
Uhm. Sono contento per Massimo Cotto. Grande. Bravissimo e preparato, sia a scrivere che in radio. Anche Gianni Canova che ha trovato prima nel ‘Mucchio’ e poi con ‘Duel’ la base di partenza per una carriera di critico cinematografico di eccellenza. Alessandro Robecchi/Roberto Giallo. Su Andrea Scanzi qualche perplessità, perché ha dovuto sicuramente accettare dei compromessi di cui io mi sarei rifiutato, ma come ‘opinion maker’ è diventato bravo. Si sa muovere benissimo in video, è preparato. Chapeau! Anche perché in quell’ambiente non è facile arrivare. Poi ho conosciuto e lavorato con tante gente per bene come Giancarlo Susanna, Vittorio Pio, Luciano Ceri, Claudio Sorge, Pierangelo Valenti, Stefano Mongardini, Paolo Biamonte, Vittorio Amodio, Stefano Ronzani, Antonio Tettamanti, Alberto Crespi, Giancarlo Trombetti, Aldo Pedròn, Daniela Amenta, Paride Leporace, Alessandro Bolli, Michele Borsa, Giampiero Di Carlo, Ida Tiberio, Francesco Mazzetta, Testani, Roberto Villani, Luciano Viti tanti altri. Anche gli irriconoscenti sono molti devo dire. Guarda caso tutti finiti a ‘Blow Up’.
Internet ha cambiato tutto, la modalità di fruizione della musica e quella dell’informazione. Ha senso, oggi parlare di rivista musicale?
No, non ha nessun senso. Succede per il mercato italiano e per quello estero. Anche riviste storiche come ‘Mojo’ o ‘Classic Rock’ sono cadute in qualità. Quelle italiane boccheggiano con 3500 copie di venduto. Una miseria. D’altra parte se trovi tutto prima in rete e gratis, che senso ha comprare un giornale? Specie in Italia, dove poi è sempre stato tutto più difficile. ‘Blow Up’ non è fatto male, ha recuperato anche molti nomi di giornalisti passati sul Mucchio, vorrebbe essere un ‘Mucchio’ di adesso, ma a Isidoro gli manca la mia spregiudicatezza e follia e non si può copiare un giornale del passato non capendo che i tempi sono cambiati. Churchill diceva che cambiare non equivale a migliorare, ma per migliorare serve cambiare. Poi è troppo supponente e ‘politicamente corretto’ (un cancro per l’informazione) per i miei gusti . Va bene ancora il ‘Buscadero’, che parla solo di ‘roots’ o ‘americana’ e si è ritagliato un mercato di 7000 persone che è lo stesso del negozio del proprietario. Ma c’è un conflitto d’interessi che non me lo fa considerare un vero e proprio giornale. Le versioni italiane di ‘Rolling Stone’ e ‘Classic Rock’ (con allegati vari) sono molto peggio degli originali, perché li mischiano a cosa nostrane che quasi sempre sono deprimenti. Quindi anche loro vivacchiano. Non so neanche come. Prima o poi chiuderanno tutti, anche perché anche le edicole sono sempre di meno. E i giornali in rete non vanno perché nessuno è disposto in Italia a pagare l’informazione.
Ma avendo risorse economiche a disposizione per dare vita ad un progetto editoriale musicale su cosa focalizzeresti l’attenzione?
L’unico che vedo è un progetto come era OUTSIDER, con un target alto, sia di gusti che di età. Per il resto non c’è spazio. Senza contare che i dischi che escono oggi, con qualche eccezione, insomma… non è che siano granché. Con il mio fratello Giancarlo Trombetti, avevamo pensato a un bel progetto che univa TV/RADIO/STAMPA, bellissimo ma money? Non abbiamo trovato nessuno disposto a investirci 100/200mila euro.
Quali sono siti o le riviste che utilizzi per tenerti aggiornato (a parte i comunicati stampa che continui a riceve) e che consideri di qualità?
Ce ne sono 4-5 americani che non sono male… ma da quando ho smesso OUTSIDER e mi dedico solo ai libri, ho un po’ mollato con i siti di novità. Ma consiglio sempre quelli americani/inglesi. Ogni tanto qualcuno mi consiglia dei dischi ma sto molto attento solo alle ristampe.
E ora parliamo di musica. Quali artisti ascolti oggi e quali non ascolti più?
Ecco, appunto. Di solito ascolto solo gli artisti di cui sto scrivendo libri. In questo anomalo tipo di lavoro riscopro certi dischi, sia in positivo che in negativo.
Normalmente le cose non le mandi a dire (e forse per questo dicono che hai un carattere “spigoloso”). Per esempio sostieni che il Punk è stato un movimento costruito a tavolino dalla case discografiche. Sei sempre di questo avviso?
Spigoloso? Ma no, sono un ‘bastian contrario’, un ‘polemico’, uno che non riesce a trattenersi dal dire la verità. questo sì. Lo ammetto. Ma è sempre stato quello che mi ha permesso di avere successo in questo settore. Non mi fossi dedicato alla musica, avrei scritto di inchieste/politica e mi avrebbero sparato. Finito lì. È strano poi che questa cosa mi esca solo sul lavoro, perché poi nella vita normale sono tutto il contrario. Simpatico, cazzaro, tranquillo, niente affatto polemico. Recentemente una mia bella storia d’amore è finita perché ’lei’ non riusciva ad accettare il mio passato lavorativo. Mi vedeva in un modo che le piaceva, poi andava su internet, leggeva tutto quello di brutto (in parte falso) hanno scritto su di me (sono stato uno dei più diffamati in rete, specie da gente che mi doveva tutto), e non riusciva a mettermi a fuoco. Alla fine non si fidava e mi ha mollato. Fessa. Per il punk mi fido di quello che disse Malcom McLaren. Concordo con lui, anche avendo vissuto all’interno delle case discografiche la nascita del punk. Un fenomeno costruito dall’industria discografica. Che poi siano usciti bei gruppi ci sta, come anche che molte band si siano messe sotto la cappella punk senza entrarci niente, vedi Talking Heads, Stranglers o XTC. Comunque non mi è mai stata bene la cosa ‘suoniamo anche se non sappiamo suonare’. Io voglio, pretendo, che un musicista sappia suonare. Questa cosa vale per il jazz e deve valere anche per il pop. Altrimenti fai un altro mestiere.
Analogico o digitale? Vinile o Streaming? In questi giorni Neil Young ha messo on line, gratuitamente fino al 30 giugno 2018, tutto il suo archivio musicale, da quando andava al liceo fino ad oggi. Che operazione è la sua, secondo te? Quali vantaggi porta una tale operazione? È questo il futuro della musica?
Mah, mi sta bene che Neil Young lo faccia anche se mi sembra troppo. Faccio fatica anche a sentire tutto quello che esce su Bob Dylan o le registrazioni live di Springsteen. Insomma, prima non c’era niente, adesso troppo. Però sto riscoprendo il vinile. Ho rimesso in sesto il mio vecchio Thorens TD 125 (un giradischi molto apprezzato negli anni ’70 – n.d.r.) e riascoltare i vinile è un piacere per le orecchie. Il CD è stata una grossa fregatura. Però non è più possibile tornare indietro. Sarebbe come dire ‘da domani tutti a cavallo, niente più macchine’. Chiaro che anche io vado su Spotify o You Tube però che tristezza ascoltare musica al computer…
Recentemente hai avuto una piccola parte nel film che racconta gli ultimi anni di vita di Nico. Quale è il tuo legame con il cinema?
Forte. sono cresciuto sui set cinematografici perché mio padre faceva il direttore di produzione. Sono andato a cena da ragazzino con Alain Delon , Antony Quinn e Marlon Brando, ho fatto il generico in decine di film, il fotografo di scena in ‘Tony Arzenta’, cameo in vari video musicali e l’attore nel 2008 in ‘Quo Vadis Baby’ e recentemente in ‘Nico’, dove purtroppo hanno tagliato la mia parte in sede di montaggio lasciando solo una breve inquadratura. Ma è stata comunque una bella esperienza che mi piacerebbe ripetere. Amo il cinema e stare sul set, anche se è un ambientaccio. Inoltre anche lì c’è una crisi spaventosa e si fa tutto al risparmio. Ovvio che poi il risultato rischia spesso di essere scadente. Non scegli la troupe in base alla bravura ma solo se costa poco. Così se ne va via la professionalità. Le settimane di lavorazione sono sempre di meno e le stesse per il girato. Sempre buona la ‘prima’. L’unico cinema che funziona ancora a livello professionale, dove si cerca sempre il meglio in ogni singolo settore e non si risparmia sul ‘settimanale’, è quello americano e inglese. Sto scrivendo anche un paio di sceneggiature ma che possano diventare un film…. La vedo dura. Ma mi diverto lo stesso.
Stai già lavorando al prossimo libro?
Mi sto sbrodolando con Springsteen, John Mellencamp, Tom Petty, Steve Miller Band e Bob Seger. Fino al 1980 compreso. Può anche darsi che alla fine sia un volume solo su Springsteen perché la mole di materiale a disposizione è enorme. Esce a primavera 2018.
A proposito i tuoi libri non si trovano in libreria, ma bisogna chiederli direttamente a te. Una scelta dovuta a cosa?
Ho sempre fatto l’editore e trovo naturale non affidarmi a un altro editore. Oddio, se arrivasse un grosso editore e mi dicesse ‘te lo edito io, eccoti 10.20mila euro’ potrei anche starci ma non è così. Oggi scrivi quasi gratis e in cambio hai il tuo libro negli scaffali della Feltrinelli per qualche mese. No, grazie. Non ho fortunatamente più bisogno di vedere un mio libro nella distribuzione per soddisfare il mio ego. Sto bene così. Ci sono nel settore editori seri come Giunti, che fanno dei libri pensati e poi ti arrivano anche gli estratti conto, ma altri…. Guarda Arcana/Viva-libri. Fanno libri su libri che quando vendono 500 copie è un successo e non pagano gli autori. Almeno questo è quello che mi dicono. A che serve? Quindi meglio stamparselo da soli e vendere solo per posta. Mille copie di un libro mi costano circa 5000 euro, a 30 euro l’uno basta venderne 180/200 e sei pari. Il resto è guadagno, anche se non è facile venderli. Oggi c’è una povertà in giro che si taglia con il coltello. Però mi diverto a scriverli. E poi devi rischiare ma è quello che ho sempre fatto nella mia vita. Insomma basta scrivermi alla mail max@outsiderock.com e ti arriva la copia a casa, numerata e con dedica. What else? L’unico aspetto negativo di non avere una casa editrice ‘importante’ dietro le spalle, è che così facendo, nessuno recensisce i tuoi libri, compreso le riviste musicali che dovrebbero, almeno negli intenti, offrire a chi legge più informazioni possibili, su cosa succede ma evidentemente non è così. Come sempre contano gli agganci, i buoni rapporti… E io mi sono fatto molti nemici perché l’invidia regna sovrana.
Nicola Olivieri