L’eleganza del jazz partenopeo di Antonio Onorato. L’intervista
Incontro Antonio Onorato in tarda mattinata. Fa caldo. Mi offre un aperitivo. Sono tanti gli amici che lo salutano affettuosamente e non mi meraviglia, perché Antonio è una persona gentile, educata e molto empatica, con la quale si stabilisce subito e facilmente quell’intesa che rende tutto facile. Provo a fare mentalmente il punto della situazione, in fondo sono sempre al cospetto di un grande artista, ma lui è lì, davanti a me nella sua semplicità e dispensa sorrisi a tutti. Mi sento a mio agio tant’è che, senza rendermene conto, abbiamo iniziato a parlare delle cose più ovvie, il caldo, il mare del golfo di Napoli, e in men che non si dica l’intervista ha preso la piega che speravo. Certo, ho fatto i compiti a casa e mi sono preparato una serie di domande, alcune delle quali sono pure riuscito a fargli, ma la verità è che quando hai di fronte una persona come Antonio Onorato, con la sua storia, le sue qualità e il suo spessore artistico oltre che umano, l’intervista si costruisce da sola. Ho capito che a condurre il gioco era lui. Naturalmente non ho fatto nulla per impedirglielo perché ascoltare le sue storie e il modo in cui le racconta è stato affascinante. Ero cosi preso dalle sue parole che neanche mi sono reso conto che stava già rispondendo ad alcune mie osservazioni estemporanee a proposito di tecnologia, smartphone e internet. Ecco come è iniziata questa lunga chiacchierata…
«È uno strumento troppo potente per stare in mano a tutti indistintamente. Internet ha dato una grande libertà, grazie alla diffusione dell’informazione ad ampio raggio, una cosa globale, con la possibilità di cercare tra più fonti. Resta però il problema della qualità e della credibilità di queste fonti. Entrando nello specifico della musica, ormai non esiste più l’industria discografica. Tutti sono diventati produttori, creando un gigantesco ingorgo “artistico”. Il fruitore si trova a barcamenarsi in un mare di melma. Sicuramente in questo mare di melma ci sarà qualcosa di buono, ma rischia di perdersi nella massa. Anche perché oggi va tutto così veloce che non credo siano in tanti disposti a fare ricerche per ore ed ore sul web. Tornando alla musica preferisco lo strapotere delle case discografiche al caos di oggi. Prima c’erano delle persone, si potenti, che decidevano determinate cose, ma molte di queste persone erano anche competenti. Una volta il disco era un punto di arrivo, oggi è un punto di partenza. Ricordo che i miei amici, quando realizzai il primo disco, nel 1989/90, avevo 24 anni, mi dicevano “caspita ora sei diventato importante”, perché registrare un disco non era alla portata di tutti, perché era molto costoso per le case discografiche, le sale di incisione costavano un occhio della testa. Presupponeva una produzione alle spalle per arrivare alla quale dovevi fare una certa trafila, la gavetta per capirci. Non sto a dirti quanti viaggi ho fatto tra Napoli e Milano, scomodi, di notte, in piedi dentro i corridoi dei vagoni, per riuscire a parlare con i discografici. Oggi con qualche click riesci a farti il disco in casa, grazie a software che ormai fanno tutto e se sei stonato c’è l’Auto-Tune che intona la voce. Certo la prova del nove arriva dal vivo, ma anche li ci sono soluzioni che risolvono i problemi. Alla fine ti rendi conto che troppo spesso conta più il personaggio che si riesce a creare che il musicista vero e proprio, poco importa se quel personaggio non sa suonare e non sa cantare. Dunque esorto i ragazzi ad essere più curiosi, a cercare a fondo, a sfruttare bene internet in quanto mezzo molto potente perché, nonostante tutto, qualcosa di buono c’è sempre. Noi negli anni ’80 lo facevamo recandoci nei negozi specializzati, come Millerecords a Roma, nei quali trovavi il disco d’importazione, trovavi quella specifica partitura o un particolare studio per chitarra. Però chiariamo una cosa, la ricerca fatta sul web, se fatta bene, sarà anche molto accurata ed approfondita, ma la conoscenza vera e proprio avviene solo sul campo. La conoscenza attraverso internet è quella virtuale, la conoscenza vera è quella che si apprende dal vivo, sul palco se fai il musicista e vuoi suonare dal vivo. Avviene scambiandosi le idee, andando ad ascoltare altri musicisti, dialogando con loro, scambiandosi anche informazioni»
Musicista e studioso, quale dei due prevale sull’altro?
«Decisamente il musicista. Lo studioso è parte di esso. Dedico quante più ore posso alla musica, perché sono nato per fare musica. È la mia missione in questa vita, per me è un’esigenza vitale, come respirare. Se mi togli la musica mi togli l’aria e muoio. Sono molto fatalista e credo che la missione assegnata a me è stata quella di esprimermi attraverso la musica e cercare di far stare bene le persone che usufruiscono di questa mia energia musicale. Ma io cerco anche di dare un messaggio, che risvegli le persone, ormai assopite, sedate dalla politica, quasi lobotomizzate da questa che agisce per i propri interessi. Le persone non ragionano più con la propria coscienza. Attraverso la musica provo a risvegliare la loro coscienza. Hai mai sentito parlare del nuovo ordine mondiale? Il potere economico che sta in mano alle banche che controllano tutto, cosi come l’organizzazione mondiale della sanità, è tutto teso non a curare e migliorare la condizione delle persone ma a controllarle. Tutto questo va contro l’etica dell’umanità. Per coloro che controllano il mondo, quelli che io chiamo burattinai, non contiamo nulla individualmente, siamo solo numeri. Questa cosa proprio non riesco a sopportarla. Ogni persona su questa terra è sacra, e comportamenti di questo tipo li voglio combattere, nel mio piccolo, con la musica»
Le ricerche che hai svolto recandoti in tanti luoghi sparsi nel mondo, immagino abbiano influenzato la tua musica.
«Si, le ricerche mi hanno influenzato moltissimo. Da musicista preferisco avere sempre un rapporto diretto con altri musicisti. Porto sempre con me la mia cultura e la confronto alla pari con le culture che incrocio e con le quali vengo in contatto. Non ho mai assunto un atteggiamento presuntuoso nei confronti di altri, ho sempre cercato di dialogare con le altre culture e assimilare da esse quegli elementi utili per il mio accrescimento, per la mia evoluzione sia dal punto di vista artistico che umano. La musica è di fatto un linguaggio universale e tramite essa riesci subito a creare un legame, un dialogo profondo, con le persone. Ricordo che feci un viaggio in Africa, da solo, invitato. Mi incontrai con dei musicisti africani e facemmo un po’ di prove prima del concerto. Facemmo un misto tra musica africana tradizionale, angolana, e proposi loro alcuni brani miei, abbastanza influenzati dalla musica napoletana. Porto sempre con me le mie radici e la mia cultura e ci tengo che già dalle prime note si senta che sono napoletano. Ricordo che ad un certo punto, dopo aver suonato brani angolani, gli feci suonare dei brani classici napoletani, ovviamente con gli opportuni arrangiamenti strumentali, tipo ‘O Marenariello. È stato incredibile ma sembravano musicisti napoletani. Ovviamente questo avviene quando c’è l’interazione giusta. In quel caso io avevo aperto i miei canali e si è creata l’intesa. Può anche non accadere, può succedere che non ci sia intesa»
Raccontaci della delegazione di musicisti a Baghdad nel 2002.
«Una delle esperienze più forti vissute nella mia vita. Partimmo con una delegazione di artisti alla quale arrivai tramite Michele Stallo, un mio amico fotografo. Lo scopo era fare un viaggio per protestare contro la guerra. Cosa che sarebbe accaduta da li a pochi mesi. Devo dire che mi imbarcai in questa avventura con molto coraggio. Ricordo che non potendo atterrare a Baghdad a causa dell’embargo, siamo atterrati da un’altra parte e ci siamo fatti mille chilometri di deserto con tre Jeep. C’erano giornalisti,scrittori, registi, fotografi, vari artisti, c’era anche Goran Kuzminac, cantautore italiano di origine serba. È stata un’esperienza pazzesca, molto formativa. Abbiamo fatto un concerto a Baghdad e uno a Baqubah e manifestazioni davanti alla sede dell’ONU, nei Suq facevamo delle lunghe processioni, tipo pifferaio magico, con tutte quelle persone che ci seguivano mentre alcuni musicisti suonavano percussioni e sax. Ripeto una esperienza meravigliosa. Gli iracheni, sono un popolo solido, con una cultura millenaria. Ho saputo solo dopo che per tutti i dieci giorni della delegazione siamo stati scortati, in modo silente e senza che ce ne accorgessimo, dai servizi segreti iracheni perché temevano un attentato contro di noi con la finalità di far ricadere la responsabilità proprio sugli iracheni e giustificare così un’invasione, quella stessa invasione che ci sarebbe stata da li a poche settimane. Ho conosciuto delle persone stupende che non hanno nulla da spartire con l’estremismo islamico, una popolazione fatta di persone semplici che non sono terroristi, piuttosto vittime dell’estremismo. Ai giovani dico che si deve viaggiare e non solo per vacanza, serve anche quello, ma viaggiare per conoscere e per imparare a rispettare tutti»
Viviamo in una terra ricca di bellezze e tesori. Uno di questi tesori è Pino Daniele. Raccontami della tua esperienza con lui.
«È vero, Pino Daniele è uno dei grandi tesori di Napoli. Esistono il tesoro di San Gennaro e Pino Daniele (ride). La considero una grande fortuna avere avuto la possibilità di lavorare con lui. Una persona con pregi e difetti come tutti, ovviamente, e nel nostro ambiente spesso lo ricordano per questi ultimi. Ma la verità è che Pino aveva una grande personalità, molto forte, e un difetto per quanto piccolo, per gli altri diventa una cosa enorme. Io, invece, ho sempre fatto molta attenzione ai suoi pregi. È stata una persona che ha fatto tanto per gli altri. Si è detto che lui non avrebbe aiutato, la madre e i fratelli. Non è affatto vero! Ha sempre aiutato la sua famiglia in molti modi e le dicerie contrarie sono solo leggende metropolitane. Era una persona che se poteva fare qualcosa la faceva. Inoltre aveva imparato a tenere molto a bada il proprio “io”. L’ego di ognuno di noi a volte può diventare anche molto pericoloso, è quello che ti confonde le idee, ma Pino riusciva a controllarlo. Lui era Pino Daniele e lo sapeva, ma non mi ha mai fatto pesare questa cosa. Quando parlavo con lui era come se parlassi con un mio amico d’infanzia non con Pino Daniele, il grande artista, e per me è stato un enorme insegnamento. Aggiungo pure che questa caratteristica l’ho ritrovata anche in altri grandi artisti e ho capito che sono le mezze calzette quelle che fanno emergere il proprio ego a dismisura e nella maniera sbagliata. Nel caso di Pino posso dire che lui era sempre proiettato verso l’interlocutore e mai su se stesso. Quando suonavamo, spesso mi diceva “bella questa cosa, come la fai? Fammi vedere… Caspita, quando fai queste cose sei eccezionale”. Queste parole lasciano il segno se a dirtele è uno che si chiama Pino Daniele. Nel 1997, ero giovane, Pino fece una tournee trionfale negli stadi ed io fui invitato ad aprire quella tournee. Eravamo due artisti, io e Joe Barbieri, che lui sponsorizzava. Noi aprivamo il concerto e poi arrivava lui e c’era anche James Senese che era tornato a suonare con lui dopo non so quanti anni. Non sto a dirti che emozione quando salivo sul palco e mi trovavo davanti a cinquanta, centomila persone, come a Palermo allo stadio La Favorita. E chi le aveva mai viste tante persone in una sola volta, io ero abituato ai piccoli club. L’applauso di tutta quella gente durante un assolo ti arrivava letteralmente addosso, sentivi un vero e proprio boato. Una sensazione pazzesca! Per fortuna mi è sempre andata bene e non mi sono mai fatto prendere dall’emozione. E Pino non perdeva mai l’occasione per farmi i complimenti, anzi quando, qualche volta, dopo il concerto me ne stavo da solo, lui mi chiamava perché stessimo insieme. Si era instaurato un bellissimo rapporto, una bella intesa professionale e umana. Lui mi dava praticamente carta bianca, potevo suonare quello che volevo per il tempo che volevo, agli altri invece dava precise istruzioni su cosa dovessero fare e come farlo. Joe Amoruso, mi diceva sempre “ma tu a chist’ che glia hai fatto, non è possibile che tu puoi fare quello che vuoi… e non ti dice mai nulla”. Ti racconto un aneddoto. Eravamo in hotel a Pescara, e io e Pino eravamo di fronte alla reception. Ad un certo punto arrivano delle persone che riconoscono Pino Daniele e gli chiedono un autografo. Lui si rivolge a queste persone dicendo: “vi faccio l’autografo a patto che lo chiediate anche alla persona che è con me. Sapete lui chi è? Si chiama Antonio Onorato ed è un grande chitarrista”. Ero senza parole! E lì mi resi conto della grande umiltà di Pino Daniele. Per me è stata una lezione importante e da allora mi comporto alla stessa maniera ogni volta che mi capita una situazione analoga»
Un’intesa di questo tipo puoi dire di averla avuta anche con altri importanti musicisti? Per citarne uno John Scofield.
«Scofield è una persona amabilissima, con lui ho seguito un seminario a Ravenna. Ne seguivo anche molti altri tenuti da chitarristi altrettanto importanti, tipo Pat Metheny, John Abercrombie e tornavo a casa con quaderni di appunti sui quali avrei potuto studiare per i successivi cinquant’anni. Studiare con questi grandi musicisti ha un valore formativo inestimabile. Avevo venti anni ed ero molto timido. Durante i seminari gli insegnanti ti invitavano a suonare con loro e Scofield dopo aver suonato con me mi chiese l’età e disse “mi sarebbe piaciuto suonare la chitarra a vent’anni come la suoni tu”. Terminato il seminario, era consuetudine far autografare il blocco degli appunti dall’insegnante e quando fu il mio turno lui mi vide, mi sorrise dicendomi “ah, sei tu…” e scrisse, prima della sua firma, “you sound good”. Nonostante questi episodi, che comunque sono molto importanti per me, no, nessuna intesa speciale con loro come invece c’è stata con Pino. Pino per me era un fratello maggiore»
Non è un caso che ti ho citato Scofield. Lui ha suonato in un noto centro commerciale della Campania. Ma non pensi che per la musica ci vorrebbero i posti giusti e non i centri commerciali?
«Anche io ho suonato in quel centro commerciale, e questo è lo specchio della nostra società. I soldi sono lì. Oggi se volessi organizzare un concerto di Scofield, da privato, andrei incontro a tanti di quei problemi burocratici, che passa la voglia dopo pochi minuti. Senza contare che oggi è sempre un’incognita quando organizzi un concerto. La gente partecipa sempre meno. Anche Pat Metheny a Napoli quest’anno non ha fatto il sold out. Non ci sono più certezze. Fortunatamente, almeno in quel centro commerciale, c’è qualcuno che è appassionato di jazz e chiama nomi importanti. Alla fine dei conti meglio concerti nei centri commerciali con l’acustica pessima e ambienti dispersivi che niente concerti. Certo se non conosci Scofileld non credo che in quella location potrai apprezzarlo, però in questo momento meglio quello che niente.
Diciamo pure che a Napoli, in questo momento, non ci sono locali dove suonare il jazz… per non parlare del cartellone di “Estate a Napoli”. Veramente vergognoso. Senza nulla togliere agli artisti, Napoli è una città che ha espresso, dal punto di vista culturale, cose straordinarie. Il mio musicista preferito è Mozart e sono convinto che è stato influenzato dalla musica napoletana. Conosco questo musicista molto bene, Lui ha soggiornato per ben due volte a Napoli, da adolescente e successivamente presso la corte dei Borbone, e quando è stato qui ha assimilato la nostra musica. Nel ‘700 venire a Napoli era come andare a New York oggi. A Napoli avevamo, Mercadante, Cimarosa, musicisti straordinari. Ti risulta che a Napoli si faccia un festival dedicato al ‘700 napoletano? Un festival che abbia una rilevanza internazionale? Come invece dovrebbe essere. Se vai in Austria, Mozart è ovunque pure sui cioccolatini. C’è una responsabilità delle istituzioni, con i politici che non sono in grado di fare una cosa del genere. Non si investe abbastanza sulla cultura e su ciò che di meglio ha espresso questa città. Un altro esempio? Esiste la grande tradizione della canzone napoletana, il turista che viene in città dove può ascoltare ‘O Sole Mio, la canzone napoletana più famosa nel mondo? Se è fortunato solo da qualche “posteggiatore” nei ristoranti sul lungomare. Non esiste un luogo dove poter ascoltare seriamente la canzone classica napoletana. È come andare a Rio e non trovare alcun locale dove poter ascoltare una Bossa Nova. A Rio esiste il museo della Bossa Nova dove fanno concerti tutti i giorni. Vai a New York e trovi il Blue Note, tempio del jazz, vai a Londra e ogni sera puoi assistere ad un concerto rock. Perché a Napoli non ci sono cose di questo tipo? A Napoli dovresti ascoltare musica napoletana classica, musica folk, compresi i neomelodici e la sceneggiata di Mario Merola, e insieme a tutto ciò poter assister anche a concerti di musiche di Mercadante e Cimarosa oltre alle nuove tendenze della musica napoletana. Perché non c’è tutto questo? Perché non è possibile fruire di questo straordinario patrimonio che abbiamo?»
Il disco con Franco Cerri è stata una cosa importante, vero?
«É il disco più bello che ho fatto fin’ora. Franco è il jazzista più importante che abbiamo in Italia, una vera leggenda, che ora ha 91 anni e ovviamente suona sempre meno. Noi abbiamo suonato insieme per più di 15 anni e abbiamo fatto tanti concerti. Lui rappresenta la memoria storica del jazz italiano. E forse anche mondiale, visto che ha suonato con Billie Holiday, Django Reinhardt. Stéphane Grappelli. Anche loro autentiche leggende. Il rapporto con Franco è stato un grande arricchimento musicale e umano»
Chiudiamo parlando del tuo prossimo disco.
«Il mio prossimo disco sarà un lavoro molto particolare. Dopo tanti anni ho deciso anche di cantare. Sia chiaro io non voglio fare il cantante, sono sempre un musicista. Ho scoperto che so anche cantare e perché non farlo? Non l’ho fatto fino ad ora per una forma di pudore. Io suono dall’età di sei anni, ma quando ne avevo 16 già avevo una band e cantavo. Conosco tutte le canzoni dei Beatles per esempio, ma facevamo anche cover di Jimi Hendrix. Ero un chitarrista rock-blues che cantava anche. Ma in effetti non volevo essere identificato come cantante, io mi sentivo chitarrista. Questa cosa, pensa, è successa anche a Pino Daniele. Lui non voleva cantare, recentemente Tony Esposito mi ha confermato questa cosa, lui aveva intenzione di realizzare un progetto nel quale voleva solo suonare la chitarra. Willy David, lo spinse a cantare, per fortuna. Insomma il canto, anche per Pino è stato quasi un ripiego. Pure lui come me era proiettato sulla chitarra. Una volta mi disse “ma tu che pienz’, pure a me mi sarebbe piaciuto diventare come Miles Davis”, intendeva come musicista… (ride). Comunque tornando a noi io non mi sentivo cantante, poi iniziai ad innamorarmi del jazz e il mio studio divenne sempre più approfondito e finii per non cantare più concentrandomi prevalentemente sulla chitarra. Oggi, si è sbloccato qualcosa e ho ripreso a cantare qualche blues, e poi registrandomi mi sono reso conto che la voce non era male e ho deciso di lavorarci su e l’ho fatto per più di un anno e mezzo. Nel prossimo disco ci saranno quattro brani cantati (due in italiano, un blues in napoletano e uno cantato in italiano e inglese) e otto strumentali. Il disco uscirà ad ottobre prossimo. Ho rimesso su la mia formazione degli esordi con Piero De Asmundis al piano, Mario De Paola alla batteria, Angelo Farias al basso, Luigi di Nunzio al sax, giovane e già un grande musicista jazz più altri musicisti tutti napoletani»
La chiacchierata sarebbe potuta andata avanti per altre due ore ma ho deciso di dare tregua ad Antonio che è stato letteralmente un fiume in piena. Grazie Antonio per la tua gentilezza e la tua generosità.
Nicola Olivieri
![](https://www.salernonews24.it/wp-content/uploads/2024/12/Banner-adv.png)