Il racconto della Domenica: Il crocevia.
di Claudia Izzo-
Il caffè è caldo, lo appoggio sul tavolo. Sfodero il mio pc dalla borsa verde petrolio. Mi siedo, mi accomodo. Mi creo il mio spazio quotidiano. Tiro fuori dalla borsa agenda, penna e penne colorate per selezionare le priorità degli articoli da scrivere, per sottolineare le videochiamate da fare, tra cui quella in collegamento con Napoli a cui non potrò partecipare di persona.
Questa è la mia nuova postazione lavorativa da qualche giorno e lo sarà per circa una settimana, meglio che socializziamo subito, così io ci vengo sorridente e l’ambiente perde la sua vera identità e si trasforma in un luogo che mi accoglie. Senza perdere tempo, dobbiamo piacerci. In fondo non mi posso lamentare: luce in abbondanza, spazi ampissimi, parquet, comode sedute, un’accogliente caffetteria e punto ristoro.
Mi stringo la mia immancabile sciarpa al collo, come un abbraccio, una protezione e mi sorseggio il mio caffè.
Quello che mi frega è il cielo, grigio, non ti promette niente: illusioni, speranze, sogni. Niente, è così e così va accettato, digerito, con quella pioggerellina finissima che tu vorresti dire: “O piovi, tanto da farmi aprire il mio ombrello rosso ” o “tanto vale che la finisci”, “Sei ridicolo ed io con te”.
Ma lo sappiamo, “paese che vai, usanze che trovi”. Ed io aggiungo “cielo che trovi”.
Mi metto a lavoro e ogni tanto lo sguardo va oltre lo schermo del pc tra una parentesi ed un pensiero e non posso non notare quanta gente frequenta questo caffè. Un crocevia di mondi, di storie, di paure, di emozioni.
C’è una mamma anziana che attira la mia attenzione. Si è alzata dal tavolino su cui ci sono due thè caldi e due fette di torta di mele. Accarezza dolcemente la figlia, cerca di farle una coda di cavallo. Il collo di quest’ultima è rigido come il suo corpo. Una maledetta patologia inchioda lei e tutto il suo mondo su una sedia nera pronta per lo spazio. E’ da quella postazione che dà vita ai suoi pensieri, che a volte le si accartocciano in testa. La madre le fa domande ma lei risponde confusa.
Ricomincio a scrivere, sto ultimando la recensione del primo libro di Umberto Mancini, “L’abbecedario del caffè”. Mi è piaciuto, parla di un riscatto, il suo. Ha fatto un viaggio a Bruxelles nel 2015, lui in cuccetta e sotto un giovane nigeriano in fuga. Umberto non gli ha rivolto parola, né teso la mano, né offerto un pò d’acqua, fino a vivere con questo rimorso per lungo tempo. Con questo libro cerca di riscattarsi.
Mentre concludo il pezzo mi arriva all’orecchio un lamento. Faccio capolino oltre lo schermo. Una donna con stampelle appoggiate al tavolo è al telefono, deve aver ricevuto, forse, una brutta notizia. Mentre parla versa il succo di frutta. Che poi le brutte notizie mica girano alla larga mentre tu hai altri problemi, sembrano fatte di ferro mentre tu diventi una calamita. Non ne basta una, si addensano come api sui fiori. Solo che tu non sei un fiore. Anche se fuori è primavera. Sembra il titolo di un libro che scrissi a più mani durante il Covid, ma se poi ci penso, vedo un albero in fiore e il cielo è quel che è.
Concludo la recensione e passo a leggere “La pillola del Lunedì” che mi arriva in anticipo. In pochi righi, mondi. La bellezza di questo meraviglioso mestiere è che scrivi ovunque e qualsiasi luogo può diventare una redazione.
Mi squilla il cellulare. Iniziamo a parlare di Trump, Putin e Zelensky… Tra due ore avremo i pezzi.
” Ti fidi? io ti amo. Siamo noi, siamo altro”. E ascoltando questa frase il mio sguardo cerca la fonte: una coppia, lei in lacrime. Lui le tiene le mani. Hanno innanzi due caffè. Fumanti.
Mi rendo conto di essere in un caleidoscopio di emozioni. Quante cose si percepiscono stando in un punto con lo sguardo su ciò che ci circonda. Serve come lavoro introspettivo, direbbe lo psicanalista della mia amica. Tutto serve se poi i pezzi vanno al loro posto. Anche scoprire che la vita nasconde sorprese belle, se abbiamo buttato via quanto c’era da buttare.
Sono le 17.
Secondo me coi tempi ci siamo. Piano 1. Raccolgo le mie cose. L’intervento dura poco, mi hanno rassicurato le infermiere, ma i medici trattengono i pazienti in sala operatoria. E ricominceremo a camminare.
In ascensore una signora mi guarda gli orecchini e dice: “che meraviglia! Dove li ha comprati?” Le sorrido e mentre le sto per decantare la genialità degli artigiani napoletani lei mi dice: “peccato che debba scappare via, siamo in uscita!”
Si aprono le porte ed ognuno prende la propria direzione, raggiunge la propria stanza dove ha qualcuno in degenza.
Io ho le caramelle in mano, l’unica cosa carina che ho trovato per far festa.
