Quando una domenica scopri l’ambiente
di Giuseppe Moesch*
Da ragazzo, amante del mare, inizia a praticare la pesca subacquea che consisteva principalmente nell’osservazione della vita che si svolgeva in quell’ambiente liquido.
Raccoglievo i frutti che offriva: cozze, ostriche, vongole, tartufi, cannumoli, ricci e tutti gli altri invertebrati commestibili.
Li mangiavo spesso sul posto, in un mare non inquinato, a cui aggiungevo gamberetti raccolti con un retino e qualche granchio fellone; poi iniziai a prendere qualche polpo che trovavo facilmente nelle fessure delle rocce quasi affioranti dove si nascondevano, segnalati dalla presenza di carapaci o chele di granchi e gusci vuoti di conchiglie, residui del pasto di quei cefalopodi.
Fu abbastanza naturale passare alla caccia vera e propria, inizialmente in assenza di attrezzature idonee, utilizzando un elastico a cui accoppiavo un pezzo di stecca da ombrello che lanciavo come una sorta di balestra artigianale, catturando piccoli pesci come quelli che pescavo con la lenza.
Quando ebbi la possibilità di usare un fucile passai a prede più significative che giravano nello specchio d’acqua nella baia di Marechiaro dove ho trascorso tutti gli anni dalla prima infanzia all’età adulta, nella stagione calda che per me andava da aprile-maggio fino a ottobre avanzato.
Le prime occhiate, le salpe, i tordi, e qualche saragotto, prede queste più ambite e gustose, erano il frutto delle mie apnee.
Un giorno mi si parò davanti un grosso tordo, sui quattrocento grammi, che segui nei suoi movimenti a lungo fino al momento in cui ritenni fosse a tiro e sparai. Il pesce ebbe un guizzo ma non riuscì ad evitare l’impatto: nell’ultimo tentativo di sfuggire alla cattura si rivoltò su se stesso per cui lo trapassai due volte.Fu per me straziante staccarlo dall’arpione che lo aveva trapassato due volte, strappandogli le carni.
Da allora sono sceso molte altre volte con il fucile, ma non ho mai più premito il grilletto ripensando ogni volta alla mia sofferenza ed a quella del pesce che avevo centrato anni prima.
Incontrai Fulco Pratesi in una domenica di fine estate, in un convegno ad Ustica sui temi della protezione delle aree fragile come quelle delle isole minori, assediate da frotte di turisti predatori, disattenti all’ambiente e con la stupidità del mordi e fuggi e gli raccontai di quella mia esperienza e così, quell’uomo mi raccontò del suo incontro con un’orsa con tre cuccioli, durante una battuta di caccia a cui partecipava, e di come avesse deciso da allora in poi di usare solo la macchina fotografica.
Anche lui aveva deposto il fucile ed aveva continuato ad integrarsi nella natura scegliendo nella vita di lottare per difendere quell’ambiente che lo aveva emozionato.
Ho insegnato per molti anni anche Economia del Turismo, e spesso ho raccontato di quella mia esperienza e di come fosse importane il nostro rapporto con la natura che ci circonda, ivi compreso con la bellezza creata dall’uomo e di come gli investimenti attivati in quel settore dovessero tener conto delle fragilità e della compatibilità del nostro operare con gli equilibri dell’intero ecosistema.
Mi hanno sempre turbato gli atteggiamenti ideologici massimalistici alla Greta, avallati da partiti alla ricerca di consenso per accrescere un potere effimero a scapito dello sviluppo socio economico dei popoli.
L’ultima aberrazione di una visione green apodittica è quella della lotta al cosiddetto cambiamento climatico, attribuendo alle auto la responsabilità della crescita dell’inquinamento e quindi della temperatura media del pianeta.
Non essere in grado di controllare le emissioni di Paesi come la Cina, l’India ed altri emergenti, non significa dovere distruggere le economie dei Paesi economicamente avanzati; le miopi scelte europee hanno già portato alla crisi profonda di molti Paesi, Germania in testa.
* già professore Ordinario presso l’Università degli Studi di Salerno
