La separazione fa la forza

di Michele Bartolo-

Il dibattito pubblico e politico italiano è incentrato ormai da mesi sul conflitto tra politica e magistratura, secondo alcuni analisti acuito dall’attuale esecutivo.

In realtà, l’attuale governo di centrodestra sta portando a compimento quello che a lungo è stato un sogno di Silvio Berlusconi, ovvero la cosiddetta separazione delle carriere tra magistrati inquirenti e magistrati giudicanti. Il tema è adesso di stretta attualità non solo per la riforma in itinere ma per lo sciopero generale dei magistrati indetto dall’associazione di categoria nazionale, ANM, sul presupposto della difesa non dei diritti di una casta ma di tutti i cittadini, a presidio di valori costituzionalmente garantiti. Questa è la vulgata che supporta la decisione di un potere dello Stato di scioperare contro un altro potere dello Stato. In realtà, il tema dei rapporti tra politica e magistratura ed anche della separazione delle carriere lo abbiamo già affrontato su questo giornale, cercando di avere una posizione quanto più possibile equilibrata ed oggettiva.

Tuttavia si è già ampiamente denunciato il ruolo politico e la parzialità di tanti magistrati che sicuramente non hanno dato lustro alla categoria e che hanno confermato e non smentito la tesi berlusconiana del processo politico o ad personam, tale da screditare quella della ricerca della verità che dovrebbe garantire il buon funzionamento della macchina della Giustizia. In tale contesto, lo sciopero oggi proclamato non aiuta ma anzi costituisce un ulteriore elemento per valutare da un punto di vista politico le scelte dell’organo di autogoverno della magistratura, che in buona sostanza protesta contro lo stesso Stato che dovrebbe rappresentare, nell’ambito della separazione dei poteri. Il punto è proprio questo: la separazione non c’è neanche tra politica e magistratura, figuriamoci se esiste la separazione delle carriere.

Diciamoci la verità: in un caso come questo, è la separazione e non l’unione a fare la forza.

Il 03 giugno 2014, oltre dieci anni fa, il Presidente  dell’Unione delle Camere penali,  avv. Valerio Spigarelli, denunciava  come i Giudici fossero troppo vicini ai PM e che fosse l’ora di separare le carriere. Questo dieci anni fa, ma, si sa, in Italia le riforme o non si fanno o si fanno molto lentamente. Il punto debole della giurisdizione penale, secondo l’analisi allora compiuta da Spigarelli, ma quanto mai attuale, è nel fatto che il sistema giudiziario è squilibrato, in quanto il Giudice non è equidistante tra accusa e difesa. Il fatto che non vi sia la separazione delle carriere comporta di per sé che il Giudice si senta e sia più vicino al Pubblico Ministero ovvero, diceva allora Spigarelli, “ (..) a ciò che l’accusa rappresenta, alla pretesa punitiva dello Stato piuttosto che al diritto di libertà dell’imputato(..)”.

D’altronde, non è necessario scomodare i grandi processi: qualsiasi cittadino comune che si trova ad avere a che fare con la Giustizia può rendersi conto di quanto sia vera questa affermazione.  Anzitutto, vi è un dato culturale e sociologico: i Giudici e i Pubblici Ministeri sono entrambi Magistrati, fanno lo stesso concorso, hanno la stessa formazione culturale e possono ricoprire un ruolo oppure l’altro, a seconda della evoluzione della loro personale carriera. Sono sicuramente contigui tra loro, lavorano nelle stesse stanze o in stanze adiacenti, si trattano come colleghi magistrati, quali sono, indulgendo ad avere un rapporto privilegiato che li porta anche ad avere un dialogo diretto e senza formalismi di maniera.

In buona sostanza, è lo stesso discorso che vale per i funzionari tributari, che prima rivestono il ruolo di dipendenti dell’Ente impositore del tributo e poi magari possono trovarsi a ricoprire il ruolo di Giudice tributario. Qualcuno potrà dire che ognuno, quando svolge il proprio lavoro, lo fa con scienza e coscienza, attenendosi con rigore al ruolo che in quel momento deve ricoprire. Ma questo, si sa, può valere per qualcuno o per pochi, è rimesso al buon senso ed all’etica del singolo, dal momento che la pratica non sempre segue la teoria. Indubbiamente, non separare le carriere facilita e non dissipa l’insorgenza del dubbio che vi sia un giudizio non sereno e l’emergere del sospetto che il Giudice possa non essere imparziale tra le parti. Inoltre, si consideri che la legge impone al PM di non portare in giudizio un imputato se non sia convinto che ne otterrà la condanna. Poiché assoluzioni e condanne in uno stesso processo di accavallano, è chiaro che la norma è disattesa.

In conclusione, a parere di chi scrive, la separazione serve ad avere un Giudice libero e non un PM a metà. Non è vero infatti che il rischio è avere un PM sotto il controllo del governo od esautorato dei suoi poteri, in quanto il disegno di legge ribadisce che la magistratura costituisce un ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere e specifica  che è composta da magistrati della carriera giudicante e della carriera requirente, introducendo quindi il principio delle distinte carriere dei magistrati, la cui disciplina viene demandata alle norme sull’ordinamento giudiziario.

Si tratta, in ogni caso, di un procedimento di revisione costituzionale che passerà  al vaglio di due deliberazioni secondo le previsioni di cui all’art. 138 della Carta Costituzionale e, nella ipotesi non raggiunga la maggioranza qualificata dei due terzi per l’approvazione, verrà poi sottoposto ad un referendum confermativo. Tutto secondo quanto prevede la stessa Costituzione, con buona pace di chi grida allo stravolgimento della Carta.  

Michele Bartolo

Avvocato civilista dall'anno 2000, con patrocinio dinanzi alle giurisdizioni superiori dal 2013, ha svolto anche incarichi di curatore fallimentare, custode giudiziario, difensore di curatele e di società a partecipazione pubblica. Interessato al cinema, al teatro ed alla politica, è appassionato di viaggi e fotografia. Ama guardare il mondo con la lente dell'ironia perché, come diceva Chaplin, la vita è una commedia per quelli che pensano.

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