The show must go on

di Giuseppe Moesch*

Quando insegnavo, normalmente un paio di corsi all’anno, capitava sempre che uno dei due si svolgesse in questo periodo dell’anno in coincidenza coll’evento. Dopo che la Befana sì era portata via tutte le feste, avremmo potuto lavorare tranquillamente fino a giugno salvo la breve pausa di Carnevale e poi di Pasqua, ma ben più dei doverosi prescritti obblighi collegati alle credenze degli studenti, l’elemento di disturbo per eccellenza, era l’evento Sanremo.

A dire il vero ero io per primo ad istigare i poveri discenti che, in particolare negli anni bui del festival, non erano molto propensi ad ascoltare e a vedere cosa accadesse su quel palco, ma dicevo loro che sarebbe stato oggetto di discussione durante le successive lezioni per ottenere che molti di loro, quasi tutti, mi seguissero.

Molti colleghi mi accusavano di sadismo, di prevaricazione e di molte altre nefandezze, ma ribattevo che insegnando materie che afferivano alla sfera sociale, era un modo importante per comprendere la nostra società.
Anche quest’anno l’evento si è presentato con tutta la sua potente macchina organizzativa a creare quel clima di attesa prodromico alla gestione delle relazioni sociali dell’anno in divenire.

Quasi tutti gli anatomopatologi dello spettacolo nelle loro perizie hanno da tempo certificato la morte della televisione; dei quasi 58,99 milioni di residenti dei quali circa 5,4 milioni di stranieri, secondo l’auditel 13,4 milioni erano nell’ultima serata davanti allo schermo, rappresentando il 73,1 % di tutti gli spettatori, ovvero il 23 % della popolazione
residente in Italia che ha deciso sabato sera di partecipare all’evento. Si è così generata la raccolta di pubblicità per la Rai pari a 65,2 milioni di euro, il 25 % a fronte della raccolta complessiva annua di circa 250 milioni a bui si aggiunge un canone che offre circa 1,7 miliardi si euro.

Le entrate derivate alla Rai per la pubblicità al festival rappresentano lo 0,3 % del totale.
Scrive Franco Pigna giornalista de “La notizia”, che secondo Marcello Ciannamea, direttore dell’Intrattenimento Prime Time della Rai, il festival non grava sul canone.
Analizzando infatti la composizione dei costi per la realizzazione del Festival si arriverebbe ad un totale di circa 20 milioni di euro, le cui voci principali sarebbero:
Affitto del Teatro Ariston, che ammonta a circa 1,6 milioni di euro,
Cachet del conduttore, stimato in 500 mila euro per Carlo Conti
Compensi per co-conduttori e ospiti, che variano dai 20 mila ai 100 mila euro per serata
Costi tecnici e logistici per la produzione dello spettacolo.

A fronte della cifra elevata, i ricavi pubblicitari e l’indotto economico garantiscono alla Rai un margine di guadagno significativo, che come si è detto ammonterebbero ad oltre 65,2 milioni di euro.
Interessante appare anche il dato relativo al costo per gli spettatori paganti pari a:
110 euro per la galleria e 200 euro per la platea (dalla prima alla quarta serata)
360 euro per la galleria e 730 euro per la platea nella serata finale.

Si calcola infine che in media, ogni spettatore presente all’Ariston spenda circa 500 euro al giorno, considerando anche trasporti, alloggio e ristorazione

Anche se i dati di quest’anno sono cresciuti in maniera significativa, si può capire perché invitassi i miei studenti a seguire l’evento, per la rilevanza economica, ma ritenevo principalmente per l’aspetto politico e sociale.

Consapevoli del ritorno in danaro ed immagine, la dirigenza Rai per oltre quattro mesi, attraverso tutti i canali, ha bombardato gli spettatori sia con spot diretti, oltre che con l’inserimento dell’evento in tutti gli spazi disponibili, a cominciare dai telegiornali, creando un clima di attesa spasmodico che ha sortito gli effetti sperati, oltre ad averci tediato con quello stupido motivetto “Tutta l’Italia, tutta l’Italia”.

La prima conclusione allora è un plauso alla lungimiranza della dirigenza dell’Azienda, che ha gestito il palinsesto nell’interesse della stessa.
Alcune perplessità tuttavia sorgono se si analizza il fenomeno anche da altri punti di vista.
La Rai è un servizio pubblico.

Lascio ad altre sedi la discussione se sia o meno compatibile un comportamento concorrenziale con le reti commerciali in presenza di un canone riscosso obbligatoriamente da parte di tutti i cittadini attraverso la bolletta della luce, ma in ogni caso l’indirizzo che l’azienda pubblica dovrà dare è di essere improntato alla imparzialità ed allo sviluppo sociale e culturale, come è nello spirito e nell’essenza stessa della funzione ad essa delegata.

Veniamo da anni di continua lesione di quei principi; inviti di prime donne legate strettamente alla politica, monologhi inconcludenti, battaglie su temi divisivi, scelte di canzoni i cui testi erano appannaggio di minoranze ideologizzate e la scelta di cantanti era strettamente legati a quei valori, tanto che avevano trasformato il palco di Sanremo in un palco da comizianti.

C’è stata una svolta significativa, eliminando la parte più sgradevole, ovvero quella dei monologhi, anche se in alcuni casi, vedi i tentativi di Benigni e della Cucciari, si è tentato di riprendere il vecchio andazzo ma la natura della struttura non è stata modificata nella sostanza.
Oggi il comizio è stato indirizzato al mercato, e lo si è visto nella scelta delle canzoni e dei cantanti accreditando il pubblico dei social come i nuovi titolari di diritti esclusivi.

Meno di una decina di canzoni accettabili sul piano della musica e dei testi, affiancata da noiosi, ripetitivi testi prodotti in brani simili tutti fatti di rumori e ritmi ripetitivi da discoteca, cantati da artisti anche valenti per le loro doti e talenti naturali, piegati ed umiliati alla moda del momento incapaci anche di far comprendere i testi che avrebbero avuto bisogno dei sottotitoli per essere compresi.

Se provassimo a leggere quei testi rimarremmo stupefatti non solo per la stupidità di quelle rime baciate ottuse ma per l’assoluta insignificanza dei testi stessi.
Lo si è visto nella serata delle cover dove quegli stessi artisti hanno espresso le loro potenzialità rendendo la serata come la migliore di tutte.

Ancora più grave è stato lo sforzo di indirizzare le scelte dei votanti; tutti sapevano che la vittoria doveva andare a Giorgia o a Cristicchi, così come emergeva prima ancora di averli ascoltati dal pubblico, dai commenti degli addetti ai lavori.
Nessuno pensa possa metter in dubbio il talento e le capacità canora dei due attesi vincitori, ma il festival doveva essere espressione di sentimenti e visioni del popolo degli ascoltatori non degli interessi di editori e produttori.

Già la sala stampa aveva fatto comprendere l’insofferenza di molti, che le altre giurie hanno confermato, ma nonostante tutto si è giunti ad un gran finale, che ha visto una sorta di resipiscenza da parte della gente normale.
La reazione del pubblico dell’Ariston è stato il segnale più netto ed inequivocabile della presa d’atto della ribellione che c’era stata.
Il pubblico dell’Ariston poteva permettersi il lusso di spendere mediamente almeno 500 euro, per partecipare all’evento, in rappresentanza di quei radical chic che hanno avuto lo stesso sussulto quando politicamente incapaci di offrire soluzioni condivisibili, sono state sconfitte non da una maggioranza significativa di elettori, ma dalla decisione di non andare a votare, disgustati dall’ipocrisia e dall’affarismo.

Il pubblico nazionale del Festival di Sanremo ha di nuovo dimostrato la sua vitalità scegliendo di non accettare di essere trattato da beoti, escludendo gli ELETTI preferendo le vere espressioni innovative interpretate, tra gli altri pochi, da Lucio Corso.

*già Professore Ordinario presso l’Università degli Studi di Salerno

Giuseppe Moesch Giuseppe Moesch

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