Novecento: un secolo di muri
Il Novecento è stato, per buona sua parte, un secolo di muri. Più ancora, di steccati. Quelli che dividono, ad esempio, il ricco e possidente Alfredo Berlinghieri dal povero contadino Olmo Dalcò nella famosa pellicola – che dal secolo prende il nome – di Bernardo Bertolucci.
Ma certamente quello più grande, doloroso e drammatico è stato quello che ha chiuso tra sé, ghettizzandole, cinquecentomila cittadini di Varsavia.

La loro particolarità? Essere ebrei. Varsavia era la seconda città al mondo per concentrazione di ebrei e il suo quartiere Nalewki, pieno di condomini e totalmente privo di spazi verdi, ne era pieno. Qualcosa di inaccettabile per i nazisti hitleriani che il 16 ottobre 1940 completarono la loro opera e, in pratica, li murarono vivi per renderli inoffensivi e poterli controllare.
Dapprima s’era pensato che fosse sufficiente fargli indossare bracciali raffiguranti la stella di David, poi i gerarchi erano passati alle maniere forti: filo spinato, tram e cavalli separati, senza né acqua, né luce. Una condizione di deprivazione che sarebbe peggiorata nel tempo.
Un muro che doveva impedire non solo agli ebrei di vivere liberamente per la città ma che impedisse anche che loro, la loro razza, il loro cinismo, la loro avidità finissero per influenzare tutti gli altri.
Un muro a protezione di una necessaria, a parere dei nazisti, incomunicabilità.

Nel 1942 la maggior parte di loro, quelli che ancora non erano stati uccisi dalla fame e dall’inedia, vennero portati nel campo di sterminio di Treblinka. Ne morirono trecentomila.
Con la guerra non terminarono le tensioni, anzi si acuirono. La divisione del mondo in due blocchi, la cortina di ferro che era calata sull’Europa si vide plasticamente con la costruzione del muro di Berlino nell’estate del 1961.
La tensione era altissima, Kennedy e Kruscev non riuscivano a comunicare efficacemente e al leader sovietico non restò altro che, ancora, erigere una barriera per evitare l’afflusso di persone dalla triste e grigia Germania Est alla più viva sorella occidentale.

“Ich bin ein Berliner” disse Jfk: chiunque abbia a cuore la libertà è un berlinese, un uomo che ha accettato, pur di non venir meno alla sua integrità morale e ai suoi principi, di vivere segregato, limitato, murato in un mondo, quello sovietico, che sentiva non appartenergli.
Il muro, come si sa, cadrà senza colpo ferire la sera del 9 novembre del 1989 facendo credere a tanti ben pensanti che la stagione dei muri fosse definitivamente tramontata.
Non era così.
Non è stato così.

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Il 9 novembre del 1993, nel pieno della dissoluzione jugoslava e delle guerre che videro tristemente protagonista la Bosnia, le forze croate distrussero lo Stari Most, il ponte che simbolicamente collegava le comunità cattoliche e quelle musulmane nella città bosniaca di Mostar. Ci avevano provato in passato anche i serbi, per gli stessi motivi.
Quel ponte, la cui caduta segnò la definitiva fine di ogni illusione di pace e, soprattutto, di comunicabilità, crollando portò con sé anni e anni di speranze.
Il Novecento è stato un secolo di muri anche perché è stato il secolo delle ideologie. Concentrati di principi e valori elevati all’ennesima potenza tanto da farli diventare limitanti, totalizzanti. Delle fedi, dei dogmi. I muri nascono quando si smette di coltivare il dubbio, quando si crede di avere in tasca la verità, quando il dialogo si interrompe.
I calcinacci sono solo una manifestazione concreta di una barriera che sorge nella mente ed è fatta di paure, incomprensioni e frustrazioni.
In copertina: Muro di Berlino tampe. Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0
