Ti ho ucciso per umanità
di Michele Bartolo-
Ogni anno si contano tanti, troppi casi di femminicidi, tanto che è stata istituita una giornata contro la violenza sulle donne. Mogli, madri, figlie, fidanzate che vengono barbaramente trucidate, in una società che considera artisti personaggi che scrivono e cantano canzoni che inneggiano alla donna oggetto e incitano alla violenza.
Ma questa è la realtà con cui dobbiamo fare i conti e gli esempi che i nostri giovani si trovano costretti a seguire. In un tale contesto, però, pensavamo almeno di essere tutelati da uno Stato di diritto, che punisce i responsabili di tali efferati omicidi e commina ad essi pene esemplari, proprio per evitare il ripetersi di simili tragedie.
Invece al peggio non c’è mai fine. Salvatore Montefusco, settantunenne ex imprenditore edile, il 13 giugno 2022 uccide a fucilate la moglie Gabriela Trandafir di 47 anni e la figlia di lei Renata di 22 anni nella loro casa a Cavazzona di Castelfranco Emilia (Modena). Due donne uccise a colpi di fucile che non hanno convinto, però, i giudici a condannare al carcere a vita il pensionato-killer che, dopo il duplice omicidio e dopo aver chiamato il suo legale, si recò al bar del paese e a chi gli chiese cosa fosse successo rispose con quell’agghiacciante: “Niente, ho ammazzato mia moglie e mia figlia’”.
La Corte di Assise di Modena, all’esito della camera di consiglio, ha condannato l’imputato a trenta anni e non all’ergastolo per il doppio femminicidio, anche in ragione “della comprensibilità umana dei motivi che hanno spinto l’autore a commettere il fatto reato”, come si asserisce nella motivazione della concessione delle attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti. “Arrivato incensurato a 70 anni, non avrebbe mai perpetrato delitti di così rilevante gravità – si legge nella sentenza – se non spinto dalle nefaste dinamiche familiari che si erano col tempo innescate”.
Sostanzialmente vuol dire che è vero che Montefusco è un assassino, ma i motivi che lo hanno spinto ad uccidere sono umanamente comprensibili.
L’avvocato Barbara Iannucelli, che assiste i familiari delle vittime, così ha commentato la motivazione della condanna di Salvatore Montefusco: “La giovanissima vittima, Renata Trandafir, voleva fare l’avvocato per acquisire gli strumenti con cui difendersi dalle quotidiane violenze a cui lei e sua madre erano sottoposte. Oggi le è stata risparmiata l’esperienza di comprendere il perché uno spietato assassino di due donne inermi possa essere destinatario di tanta benevolenza. Circostanze attenuanti generiche che spazzano via qualunque circostanza aggravante per… umana comprensione. Navighiamo tutti in un mare di forte incredulità(..)”.
La sentenza spiega in oltre 200 pagine come il delitto sia avvenuto in un contesto di forte conflitto tra Montefusco e le due donne, con presentazione di denunce reciproche.
Secondo i giudici, il movente “non può essere ricondotto e ridotto a un mero contenuto economico” sulla casa dove vivevano. Ma è piuttosto da riferirsi “alla condizione psicologica di profondo disagio, umiliazione e enorme frustrazione vissuta dall’imputato, a cagione del clima di altissima conflittualità che si era venuto a creare nell’ambito del menage coniugale e della concreta evenienza che lui stesso dovesse abbandonare l’abitazione familiare” e con essa anche controllo e cura del figlio.
Per i giudici è “plausibile” che, come riferito da Montefusco, quando Renata gli disse ancora una volta che avrebbe dovuto lasciare la casa questo “abbia determinato nel suo animo, come dallo stesso più volte sottolineato, quel blackout emozionale ed esistenziale che lo avrebbe condotto a correre a prendere l’arma” a pochi metri di distanza e uccidere le due che “mai e poi mai” secondo quanto affermato dai testimoni sentiti in aula, aveva prima d’allora minacciato di morte.”
Nel giudicare l’equivalenza tra attenuanti e aggravanti non si può non tenere conto, per la Corte, “di tutta quella serie di condotte unilaterali e reciproche che, susseguitesi nel tempo e cumulativamente considerate” se pure non hanno integrato l’attenuante della provocazione “hanno senz’altro determinato l’abnorme e tuttavia causale reazione dell’imputato”.
Quindi, siccome l’imputato, come da lui stesso dichiarato, “non ci ha visto più”, la reazione di sparare all’impazzata, rischiando peraltro di ammazzare anche il figlio, presente al momento del duplice delitto, non solo è giustificata, ma è comprensibile umanamente, perché l’assassino era in una condizione psicologica di disagio, tale da integrare una blackout emozionale ed esistenziale.
E questo, nonostante la Procura avesse chiesto l’ergastolo e nonostante la sussistenza delle aggravanti, ovvero il rapporto di coniugio e l’aver commesso il fatto davanti al figlio minore, miracolosamente rimasto illeso, come riferito dallo stesso imputato.
Non può non condividersi la valutazione espressa dal Ministro per la Famiglia, secondo cui la sentenza contiene “elementi assai discutibili e certamente preoccupanti che, ove consolidati, rischierebbero non solo di produrre un arretramento nell’annosa lotta per fermare i femminicidi e la violenza maschile contro le donne, ma anche di aprire un vulnus nelle fondamenta che reggono il nostro ordinamento”. Indubbiamente, ciò che preoccupa non è la effettiva entità della pena comminata, trenta anni o carcere a vita, ma la motivazione posta a base del provvedimento di condanna, ovvero la valutazione arbitraria nell’attribuire ad una situazione critica dell’ambiente familiare la qualifica di movente sufficiente a giustificare il tragico gesto compiuto, con la conseguenza di una ‘comprensibilità umana dei motivi che hanno spinto l’autore a commettere il fatto reato’.
Se si affermasse un principio di questo tipo, davvero ogni reazione sarebbe legittima e forse ogni femminicidio potrebbe trovare una sua ratio giustificatrice. Tutto questo in un Paese in cui chi si difende da una aggressione ingiusta per tutelare la propria vita incorre in un procedimento penale per eccesso colposo di legittima difesa. In quest’ultimo caso, infatti, non vi sarebbe disagio psicologico o blackout emozionale ed esistenziale, nè sparare può essere considerato umanamente comprensibile. Uccidere volontariamente, invece, sparando all’impazzata, diventa una opzione accettabile e giustificabile, se supportata da un contesto familiare che induca la reazione, a prescindere dalla sua entità.
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