La morte dello storytelling e la sua rinascita: tra il caos e l’autenticità.
Nel mondo del marketing e della comunicazione, la parola “storytelling” ha vissuto negli ultimi anni una carriera che assomiglia molto a un romanzo. Prima idolatrato come la chiave per sbloccare l’anima del consumatore, poi abusato a tal punto da sembrare la parodia di sé stesso. Ma, si sa, ogni trend ha il suo ciclo: prima esplode, poi si sgonfia e infine si trasforma. Oggi possiamo dire con sicurezza che lo storytelling, come lo conoscevamo, è morto. Ma non pensate che l’arte di raccontare storie sia davvero scomparsa, perché si è evoluta, come una fenice che rinasce dalle sue ceneri.
Il futuro della narrazione si tinge di frammenti, di microstorie, ma anche di caos. E qui inizia la rivoluzione silenziosa, che non è la fine della narrazione, ma la sua metamorfosi. Oggi lo storytelling si è trasformato in qualcosa di più immediato, diretto e a tratti “sgrammaticato”, per adattarsi alla velocità del mondo digitale. La Trap Communication, quella comunicazione irriverente e sfacciata, è diventata un potente mezzo di connessione. I meme, le frasi taglienti e le storie che non seguono un filo logico preciso sono entrati nel linguaggio di chi, troppo abituato alla velocità del web, non ha più tempo per ascoltare storie lunghe e ben costruite. La maranza mode è un esempio perfetto di come si è evoluto il linguaggio di chi vuole conquistare la propria audience: comunicazione frammentata, grezza, ma autentica nel suo tentativo di far parlare.
In questo panorama, lo storytelling tradizionale, quello che raccontava storie universali per un pubblico generico, non trova più posto. Oggi, i brand non cercano più di raccontare storie per tutti, ma di essere “tutto per qualcuno“, come sottolineo nel mio articolo sul vero valore di un brand. La vera sfida è arrivare al cuore di un pubblico selezionato, che riconosca la verità e l’autenticità dietro le storie. Non si tratta più di vendere storie perfette, ma di far vivere storie che parlano a chi è pronto a seguirle, che si riconosce in esse. Il marketing è passato dal raccontare storie a “provare” storie attraverso esperienze dirette, vere e personali.
Lo storytelling non è morto perché le storie non esistano più, ma è morto perché il pubblico, stanco del rumore delle narrazioni a tappeto, non ha più la pazienza di ascoltare racconti lunghi e lineari. Oggi le storie devono arrivare dritte al punto, frammentate, rapide e potenti. Eppure, c’è ancora una speranza: quella di evolversi, di rinnovarsi. Le storie non sono morte, sono diventate più svelte, più incisive, ma non per questo meno significative. Forse è il momento di riscoprire il vero cuore dello storytelling, quello che non ha paura di essere autentico e di risuonare con la realtà di chi lo ascolta.
Nel saggio “La crisi della narrazione” di Byung-Chul Han, si analizza come la società dell’informazione abbia ridotto le storie a un semplice intrattenimento, un consumo rapido che ha tolto spazio alla riflessione e alla profondità. Le storie non sono più quelle che fanno pensare, ma quelle che “fanno vendere”. In questa visione, Jonathan Gottschall, nel suo libro Il lato oscuro delle storie, esplora come le narrazioni possano essere manipolate per scopi meno nobili, come nel marketing e nella politica, trasformandole in un mezzo per manipolare e controllare le masse. In questo mondo, come ci ricorda Antonio Monizzi, quando raccontiamo una storia, la chiarezza è la virtù primaria. Ogni parola, ogni riga deve essere cristallina, affinché il pubblico possa realmente comprenderla e farne esperienza.
“Quando raccontiamo una storia, la chiarezza è la virtù primaria della scrittura, ancor prima dell’estetica. Ogni riga, ogni capoverso, ogni capitolo, devono essere assolutamente cristallini. E la responsabilità di questo ricade interamente sull’autore. Non è il pubblico a dover interpretare quello che si trova nella sua testa . Ovvio, dev’essere concentrato e attento, ma deve avere tutti gli strumenti per farlo. Per questo, mentre scrive, un bravo narratore deve sempre fare da pendolare tra il palco e la platea, tra se stesso e il pubblico, mettendosi nei suoi panni e chiedendosi: “Stanno capendo tutto? È tutto chiaro? Oppure sto dando per scontato che capiscano una cosa che è comprensibile solo a me? Sto facilitando loro le cose o le sto complicando?”
Pablo Trincia “Come nascono le storie”
Tuttavia, anche se il vecchio storytelling è morto, la sua morte non è altro che l’inizio di una rivoluzione. Si tratta di una trasformazione, di un’evoluzione che sta dando vita a una nuova forma di narrazione. La comunicazione non è più solo un mezzo per vendere, ma è diventata un mezzo per vivere e condividere esperienze reali, frammenti di verità. Le storie, ora, devono essere vere prima di essere perfette. Non più racconti generici, ma esperienze che parlano a chi è pronto a riconoscerle come proprie. È questa la nuova direzione della narrazione.
Quindi, se oggi ci chiediamo cosa rimane dello storytelling, la risposta è che esso non è morto, ma si è evoluto in qualcosa che si adatta ai tempi, ai mezzi e, soprattutto, ai bisogni dell’individuo contemporaneo. E se pensiamo che lo storytelling stia solo diventando più vuoto, forse siamo solo noi che non siamo più in grado di sentire il suo battito.
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