Nel nome di Pino Daniele
di Carlo Pecoraro-
Dieci anni fa Pino Daniele ci lasciava. La sua musica, no! Provare a spiegare cosa ha rappresentato per alcune generazioni, non è compito semplice.
Quando la sua musica esplode, intorno agli anni Ottanta, siamo nel pieno delirio del synthpop. La musica inizia a cambiare e a sperimentare nuovi strumenti, ad abbandonare la via maestra, a inoltrarsi in territori nuovi.
Qualche anno prima quel genio di David Byrne, aveva dato vita ai Talking Heads. Il punk era ai titoli di coda, anche se i Clash, nell’anno in cui usciva “Nero a metà”, cacciarono “Sandinista!” sposando la causa del partito nicaraguense contro la dittatura di Anastasio Somoza Debayle. Politica e musica, impegno e arte. Sulla scena irrompono gli U2 che ci riportano nell’Irlanda dell’Ira. Un’altra guerra di indipendenza. Bono Vox sventola sul palco una enorme bandiera bianca mentre il rullante di Larry Mullen continua a marciare e a ricordarci quella domenica di sangue del 30 gennaio del ’72. Siano nel 1983 e quella “Sunday Bloody Sunday” ancora risuona nelle orecchie.
Tutta questa roba circola carica dei suoi significati identitari, che non sono solo parole cantate, ma anche musica che martella nel cervello di una generazione che sta vivendo gli effetti deleteri dell’eroina, che ogni giorno lascia a terrà giovani ragazzi prima che le “madri coraggio” iniziassero a denunciare i loro figli in una disperata richiesta di aiuto che lo Stato non riusciva – e non riesce, ancora oggi – a dare.
Ecco, in questo clima appena accennato si muove la musica di Pino Daniele. L’Italia non è il Paese che conosciamo oggi. A Palermo, il 6 gennaio del 1980 la mafia ammazza Piersanti Mattarella. Il corpo, crivellato di colpi, è immortalato in una drammatica foto di Letizia Battaglia. Foto che è stata esposta, lo scorso anno, anche a Salerno nella bellissima mostra organizzata da Tempi Moderni: “Letizia Battaglia. Una vita, come un cazzotto come una carezza”. A Ustica un aereo di linea viene abbattuto nei cieli, in quella che scopriremo molti anni dopo essere stata una guerra tra Francia, Libia e Stati Uniti.
Napoli non è più quella di Eduardo e Totò. Gente come gli Showmen prima e i Napoli Centrale poi, stavano iniziando cambiare pelle alla città. C’è un sound nuovo impastato di America, quella nera che va da John Lee Hooker a Charlie Parker. E Pino Daniele impasta la nuova Napoli mettendo insieme i “ricordi che camminano a duecento all’ora, e ti entrano dentro senza far rumore”. Smonta la città cartolina (“E il mare, e il mare, e il mare sta sempe là/Tutto spuorco, chino ‘e munnezza/E nisciuno ‘o vo’ guardà”) e costruisce una nuova identità. E sì, quel “nero a metà” è Mario Musella, ma siamo tutti noi. Perché nero non significa solo avere la pelle nera ma molto altro. E lo avremmo capito presto, anche se la nostra pelle non era nera. Ma fortunatamente, lui ci stava già preparando al peggio.
Da quell’Alleria che se ne andava a farsi benedire per sempre e la voglia di urlare e scassare poi “tutto chello ca te fà ‘ncazza” per poi danzare per sempre sulle incertezze della vita, mentre l’ipocrisia masticava e sputava ognuno di noi. E allora Pino Daniele è stato parte della nostra formazione culturale. Della nostra identità meridionale. Del nostro impegno politico. Perché in fondo essere un nero, anche se a metà, è un privilegio che non tutti si possono permettere. Per questo la sua musica resterà immortale.
Resta immortale ed eterna. Anche quando mette la sua voce nella band che meglio ha saputo raccogliere la sua eredità di impegno politico e culturale: i 99Posse. Quando nel suo “Medina” cala “Evviva ‘o rrè” e lascia la sua benedizione laica cantando: “Credo in un solo potere, quello della gente. Sul proprio avvenire io vedo la mia anima nera. Il cambio generazionale. So’ addeventato quasi ‘na persona normale”. E viva il re !