Il racconto della Domenica: ‘O rraù ra dummeneca

di Giuseppe Moesch*

Il regime di austerità settimanale, che prevedeva l’andare a dormire dopo Carosello e alzarsi alle sette meno un quarto al mattino, era mitigato dalla tolleranza del sabato sera, quando era concesso di restare ancora un pochino svegli davanti alla tv, anche se l’abitudine consolidata faceva sì che al massimo alle nove e mezza eravamo già addormentati.
La concessione proseguiva fino al giorno dopo, domenica, quando era permesso dormire ad libitum.

L’odore dolce della cipolla sfrigolante seguito da quella dei vapori del vino era il sottofondo olfattivo del mio risveglio; mentre restavo a poltrire sotto le coperte la mia mente ripercorreva i passaggi che si erano susseguiti mentre ancora dormivo e l’evoluzione che sarebbe susseguita a quelle azioni.

Normalmente mia nonna si svegliava prestissimo e alle cinque e mezzo era abitualmente già in piedi. Prima vi erano i riti personali mattutini, dei quali la cura dei capelli era la parte più rilevante; essendo una donna dell’ultimo ventennio dell’ottocento, aveva infatti i capelli lunghissimi sale e pepe, che ravviava a lungo e che acconciava in una grossa treccia che poi arrotolava sul capo in una crocchia tenuta in sesto con delle forcine di tartaruga.

Poi entrava in attività cominciando a preparare il caffè con la vecchia caffettiera napoletana.
Il primo passo consisteva nel predisporre la polvere dai chicchi torrefatti che erano stati acquistati nella torrefazione Tuccillo sotto casa. In quegli anni l’attività di torrefazione non era industrializzata ed ogni bar offriva agli avventori il caffè prodotto in sede, preparato secondo una miscela di varie qualità diversamente proporzionate.
Ogni varietà, veniva abbrustolita in una apposita macchina, dotata di una capace pentola, che ruotava sul fuoco, leggermente inclinata permettendo al caffè di scendere verso il basso, mentre un braccio rotante lo agitava e lo respingeva verso la parte alta.
La maggiore o minore durata della miscela sul fuoco modificava il sapore finale, dando alla bevanda sentori, profumi, gusto differenti, in sintesi l’aroma, che lo contraddistingueva e rendeva unico il prodotto che veniva servito nelle tazzine roventi.

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Per mia nonna il colore dei chicchi erano il segnale che bisognava controllare per acquistare il prodotto ottimale per i gusti della famiglia ed il gestore della rivendita sapeva quale fosse la miscela di grani che l’anziana signora preferiva, e  perciò mescolava robusta e arabica e chissà quale altre varietà dai dispensatori presenti sul banco. Questi erano grossi cilindri di oltre un metro e larghi tra i trenta e i quaranta centimetri, di vetro, aperti in alto con un tappo in metallo e chiusi in basso da una caditoia anch’essa in metallo, apribile in parte con uno sportellino a forma di sassola che permetteva ai grani di scivolare nella busta di carta oleata all’interno, tenuta sotto di essa.

Nei diversi contenitori i livelli di torrefazione dei caffè erano vari ed il signor Tuccillo sapeva che doveva miscelare per ogni cliente quelli del colore preferito, che nel caso di mia nonna era tonaca di monaco, una tonalità non particolarmente scura, cioè non molto bruciata.

La miscela poteva essere anche macinata in loco, ma mia nonna preferiva farlo in casa al momento, per non perdere l’aroma, e lo faceva usando un macinino a mano,  per ridurre in polvere i grani, cosa che, una volta cresciuto, è toccato a me fare.
Il macinino consisteva in una scatola quadrata di lamiera ondulata per agevolare la presa, di color marrone, nella cui parte bassa vi era una feritoia nella quale si inseriva un cassetto nel quale scendeva dall’alto il macinato. Nella parte alta c’era una cupola che nascondeva l’ingranaggio di ruote che avevano il compito di macinare il caffè, ruote mosse da una manovella posta in cime con un pomello di legno che veniva girata per ottenere lo sfregamento delle ruote dentate. La cupola presentava uno sportellino incernierato semi sferico, che veniva aperto per inserire i grani.

Una volta ottenuta la polvere questa veniva inserita in uno dei tre pezzi che componevano la caffettiera, ovvero il porta polvere, un cilindro di latta, che in alto terminava con uno spazio traforato a buchi abbastanza piccoli della profondità di un paio si centimetri destinato a contenere la polvere, chiudibile con un coperchio a vite, il bollitore, nel quale veniva inserito il porta polvere con la sua preziosa dote rivolta verso l’alto, ed infine la caffettiera vera e propria destinata a ricevere il filtrato. Ambedue quei pezzi avevano un becco a forma di cono aperto in punta, che permetteva al vapore acqueo che si formava nel bollitore di poter sfuggire senza esplodere, mentre quello nella caffettiera per agevolare la discesa del prodotto.

La procedura era assai semplice: si versava la polvere appena macinata nel contenitore facendo “na muntagnella”, che sarebbe stata dolcemente pigiata dal coperchio a vite, si riempiva il bollitore di acqua fino al limite del caffè, si inseriva il cilindro porta caffè nel bollitore con la capsula in alto e si inseriva in cima la caffettiera vera e propria, capovolta.
Una volta giunta a ebollizione l’acqua, si toglieva il tutto dal fuoco, si capovolgeva di centottanta gradi il tutto, permettendo all’acqua bollente di scendere sulla polvere, estraendo dalla polvere gli aromi filtrando su di essa e ricadendo nella caffettiera sotto stante.

A completamento dell’opera veniva apposto un “cuppetiello” sul pizzo della caffettiera per impedire che l’aroma potesse sfuggire nel tempo necessario al percolamento e che potesse raffreddarsi troppo.

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Così si gustava il caffè, distante anni luce dai precetti che oggi vanno di moda e che sono la conseguenza delle innovazioni quali quelle delle moderne macchine a pressione.
Non quindi quella specie di concentrato quasi pastoso e rovente che ha sapore di bruciato, bensì una bevanda che ricorda più le ponderate conversazioni medio-orientali con un prodotto che ha bisogno di tempo per decantare, che va sorbito a poco a poco, senza ustionarsi, e amabile di sapore anche senza l’aggiunta di zucchero.
Quando tutto il liquido era sceso nella parte bassa della caffettiera, ella, seduta intorno al tavolo della cucina sorseggiava quella delizia, immersa in chissà quali pensieri, ma con una aria che ogni volta che ho avuto modo di osservare, mi faceva pensare che fosse consapevole di aver ben gestito la parte di vita che le era stata consegnata.

Non credo che facesse colazione, ma cominciava a predisporre gli ingredienti per allestire il pranzo, il pranzo della domenica, che ruotava quasi sempre attorno ad un caposaldo che era rappresentato dalla preparazione del ragù.
Nella giornata di sabato don Pasquale, il macellaio di fiducia, aveva preparato per mia nonna il pezzo di carne, il cosiddetto primo taglio, che sarebbe stato alla base del pranzo domenicale. Talvolta mia nonna optava per le braciole, ma niente a che vedere con il concetto della bistecca come viene interpretata al Nord, bensì la fettina di carne arrotolata, ripiena di uova strapazzate, prezzemolo, caciocavallo o mozzarella- meglio fior di latte, più asciutto-, prosciutto, uva passita e pinoli sale e pepe fermata da filo di cotone o più semplicemente con uno stuzzicadenti.

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Eravamo una famiglia numerosa e spesso aumentavano i commensali con parenti ed amici, di conseguenza, sia le dosi che i contenitori per cucinare dovevano essere generosi. Mia nonna cucinava sempre in pentole di rame, che meglio conservavano il calore, specialmente sulla cucina economica a legna o a carbone, che però io non ricordo essere stata ancora in funzione in casa nostra.

Le pentole dovevano essere opportunamente stagnate per la tossicità del rame per cui periodicamente veniva a casa lo stagnaro che riconoscevamo dalla voce che dava: “Stagnateve ‘a ramme”; gli venivano affidate tutte le pentole che avevano subito l’angheria dei mestoli strofinati sui fondi per staccare i cibi che talvolta “s’azzeccavene sotto”.
Molti di quei tegami e pentoloni erano appesi intorno alla grande cappa che sovrastava la cucina a gas con sei fuochi di cui due allineati a fare un fuoco lungo per pentole più grandi ed il forno con lo scaldavivande.
Era il segno del progresso a cui la vecchia signora si era dovuto adattare, anche se di tanto in tanto bofonchiava perché non riusciva a controllare completamente il calore che voleva imporre a differenza di quanto riusciva a fare lavorando sulle diverse parti della superficie di ghisa della cucina a legna.

Le operazioni iniziavano tirando fuori dalla ghiacciaia la carne per legarla affinché non perdesse la forma, o le fettine per fare le braciole.
Il frigorifero non era ancora presente nelle case degli italiani, vi arriverà verso la fine degli anni cinquanta, nonostante la sua invenzione e relativo brevetto risalga al 6 maggio 1851, mentre bisogna aspettare il 1930 perché venga realizzato il primo apparato senza parti mobili, grazie al brevetto di due scienziati uno dei quali si chiamava Albert Einstein.
Agli inizi degli anni cinquanta nelle case borghesi la ghiacciaia era la sola alternativa possibile per conservare i cibi più deperibili, carni, pesci, frutta, specialmente d’estate quando le temperature raggiungevano valori elevati.

Già in tempi lontani presso molti popoli erano in dotazione dei più ricchi, dei luoghi dove sottoterra si conservava la neve raccolta d’inverno, nelle cosiddette neviere, le cui prime tracce si trovano presso i Sumeri a Terqa e risalgono al 1780 a.C.
Da allora la conservazione del ghiaccio o della neve è continuata nel tempo per offrire ai potenti bibite fresche nei periodi più caldi. La tecnica di conservazione era quella di ammassare in caverne naturali o scavando grandi buche nel terreno, tappezzate di pietre o di mattoni nelle quali stivare la neve che con il freddo ghiacciava. In alcuni casi le buche venivano riempite d’acqua prelevate da corsi o da sorgenti prossime e lasciate congelare all’arrivo dell’inverno.
Talvolta queste strutture venivano ricoperte da una cupola per assicurare maggiormente la tenuta.Durante i periodi caldi i nivieri addetti alla cura di quei luoghi, tagliavano il ghiaccio in blocchi, che venivano trasportati a valle, avvolti in paglia.

Anche a Roma c’era questa attività a favore dei ricchi senatori, ma anche per raffreddare l’ambiente delle terme detto “frigidarium”, attività produttiva che continuò anche nel medioevo.
Negli Stati Uniti, a fine ottocento, vista la crescita della domanda di ghiaccio, fu inventato “l’ice plough”, ovvero un aratro da ghiaccio trainato da cavalli, per produrre a costi inferiori il ghiaccio, ricavandolo dai laghi americani.

Dalla fine dell’800 le prime fabbriche del ghiaccio iniziarono a produrre le cosiddette stecche, parallelepipedi di circa due metri, che venivano consegnate agli utenti finali, ed anche alle famiglie, che le riponevano nelle ghiacciaie, un mobile di legno, dotato di un contenitore metallico che mantenevano a lungo il prodotto. Man mano che il ghiaccio si scioglieva, l’acqua confluiva in una bacinella che veniva periodicamente svuotata.

Anche a casa nostra, con frequenza credo settimanale, arrivava un operaio a consegnare mezza stecca di ghiaccio, trasportata a spalla, avvolta in una pezza di canapa, stecca che veniva inserita nella ghiacciaia.

La prima operazione dopo la legatura e la lardellatura della carne, era quella della preparazione del battuto, nel quale oltre alla cipolla, al sedano alla carota e l’aglio, veniva aggiunto qualche pezzettino di “quello per la casseruola”, come veniva in gergo chiamato la parte terminale del prosciutto crudo che non era possibile affettare che oggi viene riconosciuto come gambuccio, e venduto come prelibatezza, e lo è, mentre all’epoca veniva considerato dal punto di vista commerciale, come un sottoprodotto.

Inserito il battuto e la carne nel tegame, “quello per la casseruola”, il grasso che era quasi sempre strutto, a cui si aggiungeva una piccola parte di olio extravergine d’oliva, si dava così avvio ad un processo che dopo l’aggiunta del vino rosso, avrebbe visto costantemente impegnati tutti i componenti della famiglia: in effetti ogni volta che qualcuno di noi si avvicinava alla pentola che sobbolliva, “pappuliava”, sul fuoco non poteva esimersi dal sollevare il coperchio per vedere, annusare e smuovere il contenuto che sprigionava tutti gli effluvi che ci avrebbero stregato a tavola.

Anche lo strutto era stato preparato in casa nel mese di gennaio: don Pasquale ci aveva consegnato dei grossi pezzi di lardo, che tutti contribuivano a tagliare in parti grandi  due o tre centimetri che venivano poste in capaci pentole, con appena un filo d’acqua per evitare che all’inizio dell’estrazione del grasso potessero bruciare, aromatizzati con foglie di alloro fresco, spezzettato per permetter alle stesse di rilasciare gli oli essenziali.

La cottura andava avanti a lungo fino a quando l’intero ridottissimo contenuto fibroso galleggiava in una pentola colma di sugna che con un capace ramaiolo, “nu cuppine”, veniva travasato nei contenitori di creta bianca smaltata a forma cilindrica, con un diametro di una ventina di centimetri ed un’altezza di trenta quaranta centimetri che ne  avrebbero consentito la conservazione.

La parte fibrosa che restava nelle pentole subiva un processo di spremitura con uno schiaccia patate per estrarre fino all’ultima goccia di quel prezioso liquido, e quello che restava, i “cicoli” o ciccioli, sarebbero stati usati, subito con un pizzico di sale a formare una gustosa “pagnottella”, o per la realizzazione di due tipiche specialità invernali ovvero il tortano ed il casatiello.

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La procedura di cottura del ragù, prevedeva l’immissione del concentrato di pomodoro, che nei mesi estivi era stato preparato mettendo ad essiccare la passata ottenuta ad agosto con la spremitura delle bacche rosse.
L’aggiunta del concentrato avveniva a più riprese e rendeva scuro il liquido sul fondo, fino a quando avveniva l’aggiunta finale di passata che era stata prodotta in casa imbottigliando il prezioso prodotto che ermeticamente tappato, veniva pastorizzato in grandi pentoloni dove le bottiglie venivano adagiate, avvolte in fogli di giornali e stracci affinché durante l’ebollizione non cozzassero tra di loro, anche se poteva accadere che a causa della fragilità del vetro, qualcuna esplodesse con rumore caratteristico.

Ripensavo a tutte queste cose e mi crogiolavo nel piacere che provo ancora oggi nel restare sotto le coperte a godere della mia pigrizia, mentre il mondo intorno a me svolge le attività.
Aspettavo il momento di alzarmi e lo ritardavo ma sapevo anche che avrei dovuto anche io dare il mio modesto contributo, sia per spezzare le zite, cioè la pasta tubiforme di cinquanta sessanta centimetri, che doveva venire ridotta a pezzi irregolari di sei otto centimetri, con gesti ritmici, azione che provocavano talvolta leggere escoriazione o addirittura piccoli tagli, e il successivo impegno di grattare il formaggio, caciocavallo stagionato o parmigiano.

C’era però una ricompensa che ancora oggi riaffiora nella mia mente e che riprovo ogni volta che il miracolo del ragù si ripete: per tutto quel lavoro mi aspettavo e sapevo che la mia complice nonna mi avrebbe dato ovvero l’autorizzazione, quando la cottura era quasi ultimata, di intingere un pezzo di pane nel sugo che “pappuliava”.

 

  • già professore Ordinario presso l’Università degli Studi di Salerno
Giuseppe Moesch Giuseppe Moesch

Giuseppe Moesch

Napoletano, già professore ordinario di Economia Applicata, prestato alla politica ed alle istituzioni nazionali ed internazionali, per le quali ha svolto incarichi e missioni viaggiando in quasi cinquanta Paesi attraversando l’umanità che li popola. Oggi propone le sue riflessioni scrivendo quando non riesce a capire quelle degli altri.

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