Giochi Olimpiaci 2024: L’estetica dello sport

di Giuseppe Moesch*

Come altri quattro milioni di spettatori, ho adempiuto al compito di restare assiso in poltrona per quattro ore per seguire la cerimonia di apertura dei giochi Olimpici a Parigi.

In gioventù ho praticato attività fisica quale tennis, nuoto, apnea, sci e poca palestra ma comunque tutte attività individuali, non avendo mai amato particolarmente le competizioni a squadra, ed anche da spettatore ho amato il ciclismo quando era espressione dello sforzo di un individuo non condizionato da interessi di gruppi.

Ancora oggi non amo particolarmente assistere agli incontri di calcio o proprio per la prevalenza di quei valori commerciali come si vede tra l’altro dai risultati.

Tuttavia, i giochi olimpici proprio per la forte componente individualistica e per lo sforzo dei singoli atleti sono una vetrina socio economica interessante oltre che un fenomeno di costume, quasi pari al festival di Sanremo, utile per capire società a confronto.

Al termine della maratona di ieri, avevo deciso di non commentare nel merito la cerimonia, perché sapevo che sarebbe stata interpretata in chiave politica con tutti i pregiudizi che girano in questo periodo nel mondo.

La cronaca di oggi ni ha confermato nei miei sospetti e le dichiarazioni nostrane ed internazionali sono state allineate come previsto, e da qui la scelta di esprimere il mio pensiero rischiando anche di essere etichettato.

Macron ha voluto celebrare se stesso quando ha commissionato ad un uomo di sua fiducia l’organizzazione dell’evento, imponendo l’inserimento di temi capaci di aggregare le minoranze che compongono la variegata struttura di buona parte dei paesi occidentali; nulla gli importava dello sport, a cominciare dagli atleti che hanno svolto il ruolo di comparse rispetto alla centralità che giustamente hanno sempre assunto nelle manifestazioni precedenti; solo nella fase finale, riuniti tutti insieme sotto la Tour Eiffel, hanno sciamato come spettatori di passaggio.

Vetrina della Grandeur di cui si sente Impersonificazione, lo show era una richiesta di consenso, pescando nel buonismo, nel pietismo, nel voyerismo e nel revisionismo storico con strizzate d’occhi ai marginali, senza offrire soluzioni ma facendo ballare la carota.

Accanto a momenti di pura poesia, dalla Marsigliese cantata con grande pathos dall’alto che ha risvegliato in tutti i valori di Libertà, Uguaglianza e Fraternità, ha voluto inserire temi stralciati da quelli universali, per trasformarli in slogan per la cattura del consenso. La magnifica corsa del cavallo meccanico sull’acqua e l’omaggio sublime ad Edith Piaf offerto da Celine Dion, sono stati offesi dalla umiliante trasformazione in orchestrina finto jazz della banda della Guardia d’Onore, come se i Nostri Corazzieri fossero stati costretti a suonare e ballare le musiche di Gigi d’Alessio.

Credo che il peggior quadro, insieme alla gratuita e blasfema proposta dell’Ultima Cena in chiave transgender, sia stata l’immagine della Maria Antonietta decollata che sostiene la propria testa mentre canta “Ah! ça ira”.

La nostalgia dei Sanculotti appare chiaramente e credo che sia stata apprezzata dai giudici francesi e da quelli nostrani; la nostalgia di impiccare i nuovi nobili e i preti vive ancora nello spirito del Presidente aspirante Imperatore.

La storia non si cancella.

La critica storica ha saputo rivalutare Maria Antonietta, ma rinnegarne figure storiche e ridicolizzarle non è mai stato il miglior sistema per conservare il potere.

La damnatio memoriae è sempre stato il simbolo del fallimento dei nuovi dittatori.

 

 

*già Professore Ordinario Università degli Studi di Salerno

Giuseppe Moesch Giuseppe Moesch

Giuseppe Moesch

Napoletano, già professore ordinario di Economia Applicata, prestato alla politica ed alle istituzioni nazionali ed internazionali, per le quali ha svolto incarichi e missioni viaggiando in quasi cinquanta Paesi attraversando l’umanità che li popola. Oggi propone le sue riflessioni scrivendo quando non riesce a capire quelle degli altri.

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