“Vicolo della Neve”, tra storia, arte, cultura e tradizioni gastronomiche: Francesco Ricciardi illustra il suo ultimo lavoro.
“Vicolo della neve” è il nuovo libro di Francesco Ricciardi realizzato in collaborazione con l’architetto Bruno Centola e l’Associazione Culturale “Amici dell’Arco Catalano” e con il patrocinio della Società Salernitana di “Storia Patria”. Un testo in cui s’intrecciano arte, storia, cultura e cucina locale. Lo storico locale che prende il nome dall’omonimo vicolo, a maggio riapre le porte dopo tre anni di chiusura; questa riapertura è in qualche modo all’origine della realizzazione del libro? Francesco ci puoi fare chiarezza a tal proposito?
Non è stata l’annunciata riapertura del locale, cosa di cui in realtà si parlava già da tempo, la molla che ha fatto partire la realizzazione del libro. In realtà, si è voluto un po’ colmare un vuoto di notizie sul locale storico salernitano, ma tutto indipendentemente dall’apertura, con nuova gestione, dello scorso maggio. E’ stato un puro caso fortunato che il libro fosse pronto all’occasione, ma in pratica si tratta di un testo storico, in cui si parla del Vicolo della Neve, della gastronomia e del vecchio locale fino al momento della chiusura e non certo del presente.
Dopo un breve excursus sulla storia del locale (già nel 1870 era presente in loco una trattoria), il ristorante più conosciuto del centro storico del Capoluogo, nel libro si citano i primi proprietari come “Ricuccio” per passare al famoso Don Peppino fino all’ultimo gestore prima della chiusura del 2021, Matteo Bonavita. Si citano, inoltre, i poeti che hanno dedicato il loro estro a questi ambienti, ai suoi odori, ai suoi spazi e soprattutto alla tradizionale tavola salernitana. Tra questi il più famoso è Alfonso Gatto. Dalla poesia poi si passa all’arte pittorica ben rappresentata grazie all’impronta del salernitano Clemente Tafuri. Di quest’ultimo Francesco, ci puoi dare qualche informazione in più, qualche curiosità eventualmente che si cela dietro ai suoi dipinti ad olio?

Tra gli abitué del locale c’erano molti artisti tra cui alcuni poeti, primo tra tutti Alfonso Gatto (il più grande poeta moderno salernitano). Ma c’erano anche altri poeti, un po’ naif, che si cimentavano nei versi, alcuni dei quali venivano appesi ai muri del ristorante. Nel libro, infatti, è contenuta una piccola antologia di queste poesie! Anche Clemente Tafuri (pittore dell’arte figurativa) era tra coloro che frequentavano il ristorante, molto amico del gestore don Peppino Carro (secondo artefice dell’affermazione del locale dal punto di vista gastronomico). Nel corso delle sue frequentazioni, ebbe un giorno l’idea di dipingere sulle pareti del vicolo, ad olio e non ad affresco, come erroneamente si crede, una rappresentazione “infernale” in uno stile tutto suo, una versione, per così dire, un po’ ironica sulla vita.


Un tratto del dipinto è rimasto ancora visibile, in corrispondenza dei due archetti di mattoni sorretti da un’antica colonna di spoglio. Quando la gestione passò a Matteo Bonavita, molti quadri del Tafuri furono portati via dal ristorante. Il libro contiene un piccolo scoop ovvero la pubblicazione di alcuni di questi quadri, in particolare il quadro grande raffigurante la scena infernale (sala dei dannati come la chiamava Tafuri) con la rappresentazione di gente intenta a godersi la vita ma che poi avrebbe dovuto pagarne il conto una volta passata ad altra vista.


Il pannello (2 metri per 6) è un dipinto ad olio su tavola di masonite che occupava l’intera parete di destra della sala. Ricordo che il Tafuri ha iniziato a dipingere verso la metà egli anni ’50. Scomparso nel 1971, in circa vent’anni, di tutte le sue opere alcune sono state concluse, altre come questo quadro particolarmente grande, non è mai riuscito a completarlo.
Il libro prosegue con l’interessante descrizione nelle “nevère” urbane ovvero le “ghiacciaie” situate proprio in prossimità del locale. Se ne contano ben 3 a poca distanza tra loro, inoltre nell’area in questione si riscontra anche un’antica domus romana (studiata dall’architetto Bruno Centola). Di nevère si parla già nel medioevo al tempo della Scuola Medica Salernitana, in quanto utili per la cura di alcune malattie, ma anche indispensabili per due importanti appuntamenti: le Fiere di maggio e settembre. La neve proveniva da alcune località di montagna non lontane da Salerno, ci puoi descrivere in breve i passaggi del commercio della neve in città?

Non lontano da Salerno, ad esempio, nell’area di Cava de’ Tirreni, c’era Monte sant’Angelo a Tre Pizzi, in cui la neve veniva accumulata in determinati luoghi, compressa e trasformata in ghiaccio. Questo ghiaccio, veniva poi trasportato a Salerno (il discorso vale per tutte le città di allora).

La conservazione del freddo, se vogliamo essere più precisi, risale a epoche più remote del medioevo. Già nell’epoca dell’Antica Roma era ben conosciuta la tecnica per conservare il freddo. Per la cura dei malati, oltre che per la conservazione delle carni e del cibo in generale. Questa tecnica in realtà si è protratta fino agli anni ’30 dello scorso secolo e cioè quando la realizzazione delle prime fabbriche di ghiaccio ha messo in crisi questa consuetudine legata al passaggio della neve dalle montagne alle città, scomparendo del tutto con l’avvento dei primi frigoriferi. Il tutto è stato talmente repentino da non ricordare neanche che fino a pochi decenni fa il freddo in casa si portava grazie alla neve caduta durante l’inverno sulle montagne. Nelle città, a gestire le nevère urbane erano delle ditte-persone che si occupavano della vendita del ghiaccio a chi ne faceva richiesta: alle famiglie agiate, gli ospedali o ai commercianti che avevano bisogno di mantenere fresche le vivande più deperibili. Nel Vicolo della Neve c’era la famiglia Amato che in questo luogo si occupava sia della raccolta della neve che della vendita del ghiaccio cioè della neve trasformata in città. Il tutto è continuato fino alla fine degli anni ’30 allorquando la famiglia aprì una fabbrica di ghiaccio a Nocera e da allora il discorso della lavorazione della neve nel Vicolo della Neve, s’interruppe!
Il libro si conclude con la (“Ricetta della memoria”: 15 piatti da ricordare), piatti dell’antica tradizione gastronomica salernitana e poi con le interessanti descrizioni del locale di alcune testate giornalistiche, di alcuni decenni fa e di altri articoli sulla riapertura dello scorso mese. Come descrivi la cucina locale e cosa la contraddistingue all’interno dell’area campano-napoletana?
Il libro, come detto prima, è realizzato a prescindere della riapertura del locale e, inoltre, non era neanche assodato che, una volta aperto, lo stesso avrebbe riproposto piatti tipici in accordo con la tradizione locale. Per decenni, nel ristorante si sono riproposti sempre gli stessi piatti. Si è pensato, pertanto, di mettere un ricettario della “memoria” in cui si raccolgono le ricette tipiche che si preparavano nel ristorante.

La ricetta è, inoltre, accompagnata anche da una foto del piatto. Per tale iniziativa è stato importante il supporto di Matteo Ragone (chef di un noto ristorante salernitano) e l’aiuto del vecchio gestore Matteo Bonavita. Nella cucina salernitana ritroviamo molte similitudini con i piatti tipici napoletani, ma Salerno ha avuto sempre una particolare capacità di rileggere le ricette classiche partenopee. Ad esempio i “puparuoli ‘mbuttunati”, i peperoni imbottiti sono un po’ diversi da quelli fatti a Napoli, ma anche la stessa pizza ha delle leggere differenze con quella tipica napoletana. Infatti ai tempi d’oro del ristorante, bisogna dirlo, venivano da Napoli a mangiare la nostra pizza. Un piatto tipico è la “meveza ‘mbuttunata”, la milza imbottita cucinata soltanto a Salerno durante il periodo di San Matteo, il locale la proponeva non soltanto nei giorni del Santo Patrono ma per un periodo più prolungato, circa un mesetto. Nello specifico, la cucina salernitana, è una composita proveniente da più territori, dal Cilento o dall’immediato entroterra del Capoluogo. Ritornando alle ricette volutamente non abbiamo messo le pizze, ma solo ricette che si posso realizzare tranquillamente a casa, non avendo sempre a disposizione un forno a legna per fare una buona pizza.
