Calcio e finanza, quando lo sport diventa “solo” industria
di Antonino Papa-
Che il football non sia più come una volta ce ne siamo accorti da oltre un decennio; aumentano sempre più, infatti, le realtà, grandi o piccole che siano, in cui le decisioni in merito al futuro di un team non tengono conto dell’ambito prettamente sportivo ma quasi sempre, ed esclusivamente, di elementi e dinamiche inerenti la parte finanziaria ed i bilanci.
Naturalmente è anche giusto che sia così perché alla fine di ogni anno (sportivo o solare che sia) i bilanci devono (?) essere in ordine ed i profitti non diventare beneficienza.
La questione, però, è più complessa di quanto possa semplicisticamente apparire superficialmente per sentito dire o attraverso le famigerate chiacchiere da bar che fanno degli italiani un popolo di allenatori e presidenti; nessuno si chiede dove questo sport stia andando dopo essere stato gonfiato di soldi oltremodo, e spesso anche in maniera non lecita.
Il calcio è lo sport più seguito al mondo, parliamo di circa metà pianeta, 3,5 miliardi di persone che alimentano una vera e propria industria i cui introiti non provengono più dai soli abbonamenti o vendite di biglietti bensì da una miriade di altre fonti dalle quali piovono letteralmente fiumi di soldi, spesso senza neanche delle pre-analisi rischi-benefici o semplici previsioni di ritorni.
Diritti tv, sponsor, utilizzo dei diritti d’immagine dei calciatori e delle squadre, fondi raccolti tramite i mercati finanziari (per le società quotate), merchandising, eventi e così di seguito costituiscono l’ossatura finanziaria di un sistema che ha relegato il pubblico fisico negli stadi a semplici comparse il cui contributo serve per rientrare delle spese minori, nonostante siano proprio le persone fisiche a generare il mostruoso giro d’affari che questo sport genera ogni anno.
Tutto ciò, però, non è sufficiente (e neanche abbastanza) per mantenere in attivo i bilanci delle società gran parte delle quali sono addirittura super-indebitate e neanche in pareggio, sembra un’assurdità se si considerano le cifre ad otto e nove zeri che ad ogni esercizio transitano attraverso i loro conti ma è una realtà che nel sistema ci si ostina ad ignorare.
Un’accelerazione al libertinaggio finanziario sportivo esasperato l’hanno data gli arabi da quando hanno deciso di scendere in campo (è proprio il caso di dirlo) in un settore fino ad allora quasi privo di interesse per le aree islamiche e mediorientali in genere.
L’avvento dei “petrodollari” ha innalzato l’asticella ad un livello quasi inarrivabile per le società europee perché le offerte provenienti dagli emiri erano, e sono ancora oggi, spropositate al solo fine di accaparrarsi il meglio, sia in termini di calcatori top che proprietà di team affermati e diventati ormai dei brands riconosciuti a livello mondiale.
A ruota si sono accodati cinesi ed americani, fondi d’investimento, banche d’affari e facoltosi magnati che hanno accresciuto la mole di capitali affluiti nel mondo del calcio e spinto le compagini europee a “gareggiare” in sfide impari per non perdere i talenti ed assicurarsi il mantenimento degli assetti cercando di chiudere gli esercizi nel tentativo di coprire il monte ingaggi che è la voce di bilancio più onerosa.
Conseguenza, logica, di tutto ciò è stata una sempre maggiore ricerca di sponsor ai quali le società hanno ceduto stadi, o demandato la costruzione degli stessi, in cambio di decine (in alcuni casi centinaia) di milioni annui stabiliti contrattualmente; contemporaneamente il business degli ingaggi è lievitato esponenzialmente, sia per una maggiore consapevolezza dei calciatori ma soprattutto per il lavoro di agenti e società di intermediazione.
Gli stessi tornei principali sono stati riorganizzati finanziariamente per assicurare introiti importanti alle squadre che raggiungono determinati target minimi, ovviamente sempre tutto finanziato da sponsor e diritti tv principalmente, in qualche caso anche da società di videogames e produttori di console di gioco.
Risultato di questa ennesima “transizione” è che il settore del calcio europeo che conta è andato a sbattere con la pretesa di potersi misurare con i miliardi islamici e cinesi.
Infatti, le più grandi società si sono indebitate fino ad oltre il miliardo di euro, alcune delle quali costrette a smantellare gli organici o cercare artifici contabili (vedi plusvalenze fittizie) per reggere il confronto, eccezion fatta per chi i soldi li riceve dal sottosuolo che, fair play finanziario permettendo, può ripianare i buchi all’infinito.
Questo stato di cose non solo ha snaturato il gioco del calcio ed i suoi valori ma generato una spasmodica corsa al denaro in nome della quale si offrono cifre stratosferiche sia per acquistare il cartellino di un campione ma anche per pagargli l’ingaggio, pensiamo a Ronaldo (circa 200 milioni l’anno) o a quanto è costato Mbappè con conseguente ingaggio e così di seguito.
Questa corsa al rialzo ha livellato verso l’alto anche le pretese dei calciatori comuni mortali e ci si è ritrovati così in un sistema gonfiato all’inverosimile che poggia le fondamenta su una montagna di debiti che prima o poi qualcuno dovrà ripianare.
La criticità da affrontare ora è che il calcio sta perdendo appeal, prova ne è la perdita di abbonati che hanno accusato le emittenti che hanno i diritti per le competizioni nazionali ed europee e molti sponsor che hanno compreso di aver speso somme enormi senza adeguati ritorni d’immagine e neanche finanziari.
Ergo…? Il calcio che conta si sta spostando in aree dove i soldi da “gettare” li hanno in abbondanza, Arabia Saudita, Cina ed USA mentre le federazioni europee si stanno trasformando in succursali finanziarie dei potentati economici extra-europei come, ad esempio, il Regno Unito il cui business del calcio è ormai fuori dal controllo degli inglesi.
E di calcio giocato cosa resta? I valori dello sport dove sono finiti?
Sarebbe ora di invertire la rotta …
