Si apre il tavolo delle riforme: il nostro ordinamento alla ricerca della stabilità

di Pierre De Filippo-

Si è aperto martedì 9 maggio il tavolo tra maggioranza ed opposizioni per discutere di riforme istituzionali. A dirigerlo, la Premier Meloni, accompagnata da tutti i maggiorenti della sua coalizione, a cominciare dalla Ministra per le Riforme Casellati e dall’uomo ombra, quello col peso specifico più importante all’interno di questo governo, il sottosegretario Alfredo Mantovano.

Le riforme costituzionali sono un must della nostra storia politica. Basti pensare che, subito dopo l’approvazione della nostra Carta costituzionale, Giuseppe Dossetti – che pure aveva concorso a redigerla – la definiva “scialba, monocroma, dannosa”; per Piero Calamandrei era semplicemente “l’incompiuta” mentre Scelba sottolineava che “non è il Corona”. Ergo: può essere modificata.

Da lì, una lunghissima sfilza di tentativi: dal “decalogo Spadolini” alla commissione Bozzi (siamo nei primi anni Ottanta), dalla bicamerale De Mita/Iotti a quella D’Alema (anni Novanta), fino ai tentativi di Berlusconi e Renzi (nuovo millennio), chiusi entrambi con un nulla di fatto.

Ora se ne ridiscute ma non con minore scetticismo o con maggiore entusiasmo.

Il Governo aveva promesso, in campagna elettorale, la “svolta presidenzialista”, vale a dire l’elezione diretta del Presidente della Repubblica. Lo ha ricordato chiaramente Riccardo Molinari, Lega, sostenendo che il punto di partenza non può che essere quello.

Questa opzione, però, non raccoglie il favore delle opposizioni, per usare un eufemismo: Pd, M5S, Terzo polo, sinistra si sono detti tutti contrari a toccare una figura di garanzia come quella dell’inquilino del Quirinale. E non hanno torto. Immaginata cosa sarebbero stati il covid e la guerra senza la presenza e l’autorevolezza, morale e politica, di Sergio Mattarella.

Per questo motivo, Antonio Tajani, diplomatico per indole e per professione, ha giustamente fatto notare che l’obiettivo è dare stabilità ai governi senza passare da una formula preconcetta.

Una valida alternativa potrebbe essere il cosiddetto premierato, che può significare tutto o niente e, per questo, necessita di chiarimenti. Il punto di partenza è certamente la volontà di rafforzare la figura del Presidente del Consiglio. Il governo e parte delle opposizioni (Italia viva) spingono per la sua elezione diretta da parte del popolo, mentre le altre opposizioni si accontenterebbero di correttivi all’attuale sistema, senza stravolgerlo più di tanto.

Come è noto, uno dei più incisivi potere del Presidente della Repubblica risiede nella sua facoltà di nominare il Presidente del Consiglio. Con l’elezione diretta, questo potere verrebbe meno. Non solo, il Presidente del Consiglio vanterebbe, rispetto al Presidente della Repubblica, una legittimazione ben più forte ed ampia. A questo si aggiunga che l’elezione diretta del Premier darebbe sfogo a quella volgata che lo vorrebbe “espressione della volontà popolare” (come se l’attuale Premier fosse espressione di chissà cos’altro) me inciderebbe ben poco sulla sua stabilità, che è l’obiettivo che tutti intendono raggiungere.

A questo si aggiunga un ennesimo punto, a dimostrazione di quanto complessi siano questi meccanismi: con l’attuale proposta di autonomia differenziata del ministro Calderoli molte funzioni (e relative risorse) verrebbero destinate, devolute alle Regioni. Ci si chiede, quindi, a cosa servirebbe eleggere direttamente l’inquilino di Palazzo Chigi se poi il suo ruolo venisse essenzialmente svuotato di competenze.

 

In sintesi e a mio parere:

  • Sarebbe opportuno lasciare che sia il Presidente della Repubblica a nominare il Premier (non mi sembra, checché ne dica una certa retorica, che fino ad oggi questa nomina sia stata fatto in controtendenza con i risultati elettorali, ricordando sempre che la nostra è una “Repubblica parlamentare” e che, quindi, è legittimato a governare chi ha la maggioranza nelle due Camere);
  • Sarebbe opportuno superare il bicameralismo perfetto: siamo l’unica grande democrazia occidentale ad avere due camere, la Camera dei Deputati ed il Senato, che svolgono esattamente le stesse funzioni e che, soprattutto, votano la fiducia al governo. E coi suoi numeri ben più risicati, il Senato diventa puntualmente il luogo della “notte dei lunghi coltelli”, quello nel quale l’Esecutivo ci lascia le penne. Dunque, riforma del bicameralismo con fiducia solo da parte della Camera dei Deputati. Sul ruolo del Senato si apra un’ampia e aperta discussione:
  • Sarebbe opportuno introdurre anche in Italia la cosiddetta “sfiducia costruttiva”, presente in Germania ed in Spagna. Grazie a questo meccanismo, un governo non può essere fatto cadere a meno di non avere già pronta e a disposizione una nuova maggioranza pronta ad insediarsi. La “sfiducia costruttiva” ha dimostrato di essere il modo migliore per conciliare stabilità dei governi e parlamentarismo;
  • Sarebbero opportuno che il Presidente del Consiglio smettesse di essere, rispetto al suo Esecutivo, un primus inter pares. In questo si sostanzierebbe l’aumento dei suoi poteri. È a lui (o lei) che la Camera vota la fiducia ed è lui (o lei) a nominare i ministri, d’accordo col Presidente della Repubblica. In questo modo, avrebbe anche il potere di “dismetterli” in caso di disaccordo. Sarebbe lui (o lei) ad assumersi, formalmente e sostanzialmente, la responsabilità dell’azione di governo dinanzi al Paese e a risponderne in termini elettorali;

 

Sono, questi, solo degli spunti. Dei tentativi minimi di modifiche. La storia dovrebbe averci insegnato che quando si tentano stravolgimenti epocali si finisce sempre per essere ghigliottinati con lo stesso strumento che s’è usato. Dunque, meglio non rischiare.

Le riforme istituzionali possono e devono essere incrementali: partiamo da qui e non è detto che, domani o tra cent’anni, non si possa arrivare più lontano.

Un’ultima notazione. Abbiamo, come molte altre democrazie, enormi problemi di astensionismo. Una riforma dovrebbe provare a fare qualcosa anche rispetto a questo tema. Il Bundestag tedesco, ad esempio, non è formato da un numero prestabilito di membri. Varia di volta in volta a seconda degli equilibri elettorali. Perché non immaginare la stessa cosa? Perché non premiare, all’interno di una legge elettorale chiaramente ben definita, quelle aree del Paese che più votano?

“Più voti, più rappresentanti avrai”. Sembra una televendita ma nel Paese che ha dato credito a maghi, stregoni e Wanna Marchi potrebbe funzionare.

 

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