Il garantismo e i suoi padri
di Michele Bartolo-
Abbiamo spesso discusso dei temi della Giustizia, del giusto processo, del diritto di difesa, delle garanzie, in buona sostanza dello Stato di Diritto, emblema della civiltà di un Paese e di come, anche nella nostra età moderna, la dignità dell’individuo sia spesso messa in pericolo se non del tutto dimenticata e calpestata.
Ma facciamo un salto nel passato, nella nostra storia, ricordando il pensiero di Cesare Beccaria, giurista ed economista, tra i massimi pensatori dell’illuminismo italiano, che può essere considerato uno dei padri del moderno garantismo.
Nella sua opera “Dei delitti e delle pene”, vero capolavoro della scienza criminale moderna, egli effettivamente pone le basi del “patto sociale” in base al quale ogni cittadino rinuncia a una piccola parte della propria libertà per il raggiungimento della maggior felicità possibile, garantita a ciascuno dall’azione dello Stato.
In questa ottica, la pena di morte, secondo Beccaria, sarebbe un’inutile e fuorviante tortura e potrebbe essere destinata ad innocenti. Uno Stato che vuole essere giusto non ha diritto a punire utilizzando strumenti simili, ma deve essere risarcito proponendo punizioni socialmente utili e tese al recupero, non alla repressione. Egli, quindi, parla senza saperlo di quello che sarà poi inserito nella Costituzione moderna nella forma della funzione rieducativa della pena, che di fatto rende improponibile anche la pena dell’ergastolo, ovvero il fine pena mai, che si rivela incompatibile con la funzione di recupero del reo. Ma Beccaria non è l’unico e il solo a parlare di questi temi.
Centocinquanta anni fa moriva Alessandro Manzoni, l’autore de “I Promessi Sposi”, nipote di Cesare Beccaria, la cui conversione emerge nella famosa “Storia della Colonna Infame”, un saggio storico pubblicato nel 1840 in appendice ai Promessi Sposi. In tale saggio, Manzoni ricostruisce un terribile fatto di cronaca avvenuto a Milano nel diciassettesimo secolo: il processo contro Guglielmo Piazza e Gian Giacomo Mora, accusati di aver diffuso il morbo della peste e condannati a morte tramite supplizio dalle autorità spagnole.
La grande peste colpì la città di Milano nel 1630, provocando oltre un milione di vittime. Guglielmo Piazza, importante dirigente sanitario, fu avvistato da una cittadina mentre camminava lungo un edificio facendo strisciare la mano sul muro. Piazza, in realtà, stava ispezionando gli edifici ed era quindi nell’atto di compiere una verifica sanitaria sulle loro condizioni igieniche. Ma il suo gesto fu male interpretato dalla donna, in quel momento in preda alla paura. La cittadina, infatti, era convinta che l’uomo stesse spargendo oscure sostanze, responsabili dell’epidemia di peste “(..) vide un uomo con la cappa nera e qualcosa in mano(..)”. Piazza viene immediatamente fermato ed incriminato e con lui Gian Giacomo Mora, il barbiere che gli avrebbe fornito la sostanza venefica.
La confessione viene estorta con il mezzo della tortura e i due vengono condannati a morte tramite supplizio. Nessun processo, quindi, nessuna prova trovata contro Piazza e Mora. Solo una diceria, un pregiudizio, un teorema accusatorio che diventa automaticamente sentenza di condanna a morte, senza appello.
Manzoni è molto crudo nel descrivere l’agonia dei due condannati: “(..) Tanagliati con ferro rovente, tagliata loro la mano destra, spezzate le ossa con la rota e in quella intrecciati vivi e sollevati in alto; dopo sei ore scannati, bruciati i cadaveri, le ceneri gettate nel fiume, demolita la casa di Mora, reso quello spazio inedificabile per sempre e su di esso costruire una colonna d’infamia(..)”.
Come Beccaria e Manzoni sono i precursori del garantismo e dello Stato di diritto, così Piazza e Mora sono gli antenati delle vittime dei processi mediatici, dove la rilevanza delle prove, le garanzia di difesa, il giusto processo, la presunzione di innocenza vengono calpestati in nome del superiore interesse dello Stato a trovare e perseguire i colpevoli, a incriminare i capri espiatori ideali, senza alcuna considerazione della dignità umana e dei diritti e delle libertà del singolo individuo.
E’ un patto perverso, che spesso ritorna nei cicli della Storia, tra il giustizialismo dell’autorità e la sete di vendetta del popolo, entrambi desiderosi di trovare un colpevole, a tutti i costi.
Manzoni, come Beccaria, ci insegna che i diritti e la libertà dei singoli sono beni irrinunciabili ma, ancor di più di Beccaria, egli appare osservatore della psicologia delle masse, mettendoci in guardia dall’insidia costituita dalla suggestione collettiva, dalla superstizione, dal pregiudizio, che offusca la ragione e che determina il giudizio, senza che vi sia prima la raccolta della prova ed un giusto processo.
Spesso, ci insegna Manzoni, sono gli stessi governi a soffiare su quel fuoco che viene alimentato dalla massa e il risultato è che la prima vittima di un potere politico cieco e di un sistema giudiziario iniquo è la verità, intesa come ricostruzione razionale e attendibile dei fatti realmente accaduti. Manzoni conclude: “(..) Que’ giudici condannaron degl’innocenti, che essi, con la più ferma persuasione dell’efficacia delle funzioni, e con una legislazione che ammetteva la tortura, potevano riconoscere innocenti; e che anzi, per trovarli colpevoli, per respingere il vero che ricompariva ogni momento, in mille forme, e da mille parti, con caratteri chiari, allora com’ora, come sempre, dovettero fare continui sforzi d’ingegno e ricorrere ad espedienti, dei quali non potevano ignorare l’ingiustizia (..)”. Così scriveva Manzoni, circa duecento anni fa.