Un altro 25 aprile di polemiche e spaccature, l’ennesimo
25 aprile: Festa della Liberazione. A quanto, quella della pacificazione?
Avvicinandoci a questa scadenza, ogni anno speriamo sempre che il nostro Paese possa dimostrarsi più maturo e ragionevole, più saggio ed ingentilito, più moderno. Ogni anno scopriamo, con legittima disillusione, che non è così, che le polemiche invece di acquietarsi aumentano e che la pacificazione, storica ed ideologica, della nostra bella Italia è ben lungi dall’essere compiuta.
Ci ha pensato, in quest’occasione, Ignazio La Russa, seconda carica dello Stato, a buttare alcool sul fuoco, con le inopportune dichiarazioni revisionistiche rispetto ai fatti di Via Rasella – dove, a suo dire, fu sterminata una “banda musicale di semi pensionati” – e poi con l’ambigua affermazione sul fatto che, in Costituzione, non compaia la parola “antifascismo”.
Più che un’affermazione, a ben guardare, sarebbe più corretto definirla una precisazione, una sottolineatura, quasi una manifestazione di vanitosa erudizione. Interpretata così, la frase assume un suono ancora più sgradevole.
Perché è proprio l’inverso di ciò che si chiede a questo governo di destra-centro, vale a dire di prendere una posizione chiara, univoca e definitiva su quanto l’antifascismo sia stato – per usare le stesse parole usate da Alleanza nazionale al suo congresso fondativo – “un momento storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici che il fascismo aveva conculcato”. Per sé stessa e la sua legittimazione politica, per il Paese ed il suo futuro.
Ha ragione Elly Schlein quando dice che “l’antifascismo è la costituzione”. Si avvertì la necessità di riscrivere daccapo la nostra Carta fondamentale proprio perché quella precedente, lo Statuto albertino, non era riuscita ad arginare, con le sue stringate previsioni ordinamentali e con quelle del tutto assenti riferite ai diritti essenziali di ogni persona, il sorgere della dittatura.
La pace, si dice, è un moto. Vale a dire non una conquista perenne ma un fuoco che va sempre alimentato perché, dovunque ed in ogni epoca, rischia di spegnersi, di perdersi.
Pacificazione – che dovrebbe essere l’obiettivo di tutti – non significa e non può significare parificazione. Tra l’aggressore e l’aggredito, tra chi scelse la parte giusta e chi scelse la parte sbagliata della barricata, tra il democratico e l’antidemocratico, tra chi ragionava di costruire il futuro e chi pensava di vivere con le rendite del passato.
Ma pacificazione significa anche ammettere che nessuno – nessuno – può vantare il monopolio di quel patrimonio comune che è stata e che deve continuare ad essere la Resistenza. Perché non è un gioco di parole e non si svela che un segreto di Pulcinella se si dice che tutti i democratici sono antifascisti ma non tutti gli antifascisti sono, o sono stati, democratici.
Non lo sono stati nelle tante occasioni in cui hanno ritenuto di poter stabilire chi dovesse o non dovesse partecipare alle commemorazioni, chi potesse parlare e a che titolo e a chi, invece, questo diritto fosse vietato, chi potesse sentirsi legittimato a fare politica e chi, diversamente, con la coda tra le gambe avrebbe fatto meglio a “tornarsene nelle fogne”.
Pacificazione significa quindi anche recidere quelle pseudo-motivazioni ideologiche che, ancora negli anni Settanta e Ottanta, facevano morti e feriti in nome dello spirito di fazione, di rivalsa o di vendetta che ancora imperava.
Pacificazione deve, quindi, significare accettazione del passato e condivisione del futuro.
Accettazione di un passato nei confronti del quale si metta, finalmente, un punto rispetto alle colpe e ai meriti dei padri e condivisione di un futuro per le speranze e le opportunità dei figli.
Non dobbiamo liberarci della nostra storia ma solo dei mostri con i quali, troppo spesso, l’abbiamo rappresentata, per chiudere definitivamente anche in Italia questo lunghissimo dopoguerra.
