Come ogni anno, il lascito sociopolitico del Festival di Sanremo
di Pierre De Filippo-
Come ogni anno, il lascito sociopolitico del Festival di Sanremo. E cominciamo proprio da qui: dal fatto che ne lasci uno. Dovremmo iniziare a preoccuparci il giorno in cui non si alzerà una voce, non ci sarà nessuna polemica o incidente di percorso perché significherebbe che ci stiamo incamminando, inesorabilmente, verso la noia dell’indifferenza e il pericolo del pensiero unico.
“Questo festival è truccato e lo vince Marco Mengoni…” avremmo potuto dire già dopo la prima sera, citando il mitico disturbatore di Pippo Baudo.
L’esito canoro è stata l’unica cosa scontata di questa rassegna che, per il resto, ha fatto ampiamente parlare di sé: in primis, per gli ascolti: altissimi; poi per le sue donne: da Chiara Ferragni ed il suo monologo autoreferenziale a Paola Egonu – “che non venga a farci il pippone sul razzismo”, aveva chiosato Salvini, e lei che risponde “Italia amore mio…” prendendolo bellamente per i fondelli – fino alle due profonde e argute Fagnani e Francini, che dimostrano che si può parlare, sulla tv di Stato, di temi importanti come la maternità e la detenzione in maniera seria ma discreta.
E poi il caso Zelensky: il balletto Zelensky sì, Zelensky no è stato un po’ stucchevole. Prima la presenza, poi il video, poi il messaggio scritto, che arriva a tarda notte. Ecco, qui la dirigenza Rai avrebbe potuto agire diversamente, con meno ipocrisia e meno infingimenti.
Ma le note dolenti, quelle vere, arrivano per altre ben più prosaiche motivazioni: nel suo freestyle dalla nave dello sponsor – qualcuno ha detto “ecco, il fricchettone radical chic sulla nave viene a farci la morale…” – Fedez se la prende un po’ con tutti: col Codacons, che fa il forte coi deboli e il debole coi forti, con Marrakesh a distanza di anni e, soprattutto, con la politica.
Strappa in eurovisione l’immagine di Galeazzo Bignami, viceministro alle Infrastrutture, vestito da naziskin e se la prende con la ministra Roccella, autrice di quel “l’aborto è un diritto? Purtroppo sì”.
Adeguato?
Appropriato?
Opportuno?
No!
E non mi riferisco ai gesti e alle frasi di Fedez.
E poi Rosa Chemical, che in anteprima era già assurto agli onori delle cronache per una interrogazione che la deputata di Fratelli d’Italia Maddalena Morgante aveva posto sulla sua partecipazione al festival canoro.
Adeguata?
Appropriata?
Opportuna?
No!
E non mi riferisco alla presenza di Rosa Chemical.
Quando si limona Fedez al termine della sua esibizione ci viene da pensare che, checché se ne dica, l’arte non è mai e non sarà mai censurabile, condivisibile o meno che sia il gesto.
Anche questa è la democrazia.
Ma fa bene Fiorello a chiedersi: cosa succederà adesso? A Coletta, a Fuortes, alla direzione artistica. Fa bene perché Gianmarco Mazzi, che il festival l’ha diretto e che ora è sottosegretario alla Cultura, era intervenuto già al termine della quarta serata per criticare l’atteggiamento di Fedez – “ha tradito il patto di fiducia con gli italiani! (Quale?) – e per dire che “io non banalizzerei parlando di spoil system ma di modelli culturali che cambiano. È giusto cambiare la narrazione del Paese”.
Anche della Premier si dice che sia particolarmente inviperita: in primis, per il trattamento riservato a Zelensky, ed ha ragione; in secondo luogo, per le intemerate di Fedez, ed ha meno ragione. Si parla di eliminare (fisicamente proprio) Coletta e commissariare Fuortes, affiancandogli il fidato Giampiero Rossi.
Salvini ha già chiesto la testa di tutti pur informandoci, sin dalla prima sera, che lui il Festival non l’avrebbe visto. Come fanno tutti, del resto. E poi, puntualmente, lo guardano. Come con la Democrazia cristiana.
Questo, dunque, lo spaccato del nostro bel Paese nell’anno di grazia 2023. Guerra, diplomazia, bigottismo e progressismo, gender fluid e famiglia tradizionale.
Indipendentemente da come la si pensi, il punto è uno: Mazzi parla di modelli culturali che cambiano. Fa bene. Di nuova narrazione del Paese. Fa bene.
Ma un po’ come Troisi con Pertini che si chiedeva dove fossero finiti i soldi del Belice, anche Mazzi, più che guardare avanti e dirlo a noi, dovrebbe guardarsi indietro e dirlo ai suoi colleghi nelle istituzioni.
I modelli culturali cambiano e li cambia la società, non la politica. La narrazione del Paese la dà la società, non il governo. Diversamente, per citare la simpatica canzone di Ariete, saremmo in un “mare di guai”.
