I problemi che il PD si trascinerà anche oltre il congresso
-di Pierre De Filippo-
Il Partito democratico si avvia lentamente, stancamente e disordinatamente verso il suo congresso, che vedrà la luce nei primissimi mesi del nuovo anno.
È l’ennesima resa dei conti in un partito che sembra non trovare pace, incerto com’è sul sentiero da seguire e che, invece che ragionare sulle questioni da troppo tempo, si limita solo a ragionare sulle persone.
Non è un caso, infatti, se tutti i segretari che il Pd ha avuto finora abbiano lasciato la politica (Veltroni, Rutelli), il partito (Bersani, Renzi) o questa terra (Epifani). Certo, poi c’è lui, Dario Franceschini, che da buon democristiano ha deciso di lasciare le piccole beghe di partito e, volendo assurgere a uomo politicamente trasversale, s’è fatto eleggere presidente della Giunta per le elezioni e le immunità, un ruolo di garanzia costituzionale.
Oggi il partito appare spaccato irrimediabilmente in due tronconi: quello socialista-massimalista dei Cuperlo, dei Provenzano, degli Orlando e dei zingarettiani e quello riformista di Guerini, Marcucci, Ascani, Malpezzi, Delrio.
A due fazioni, dunque, corrisponderanno due leadership, due proposte congressuali? No, diversamente sarebbe troppo semplice. Perché se è vero che l’ala riformista sposa – ma senza ardente passione – il ticket Bonaccini-Nardella (il primo Governatore dell’Emilia-Romagna, il secondo Sindaco di Firenze post-Renzi), l’ala massimalista non si fida della proposta ecologista-pacifista-operaista d’altri tempi della pur effervescente Elly Schlein, che di Bonaccini è la vice in regione.
Per la Schlein vale ciò che, ironicamente, sosteneva Gian Carlo Pajetta per Berlinguer, secondo il quale “giovanissimo s’era iscritto al Comitato centrale del PCI”. La Schlein si iscriverà al PD candidandosi a guidarne la segreteria. Che è già simbolo di qualche meccanismo che, evidentemente, non ha funzionato alla perfezione.
Ma, al netto dei nomi e delle proposte politiche, che latitano per il momento, viene da chiedersi se davvero il Pd abbia perso quella “vocazione maggioritaria” che Veltroni, con determinazione, aveva provato a darle e che Renzi le aveva permesso di raggiungere.
Si dice “è il solito Pd, quello delle lotte intestine, delle correnti, dei distinguo, delle rendite di posizione”. Bonaccini e Schlein su un unico tema hanno già preso posizione: le correnti vanno eliminate. Facile a dirsi, difficilissimo a farsi. Anche perché, mai come in questo caso, pare che le due idee (maggiori) presenti nel partito abbiano motivo di esistere.
E questo perché il congresso, prima ancora che guardare dentro, dovrebbe guardare fuori, alla realtà del mondo che cambia, alle dinamiche politiche che evolvono.
Se la dirigenza del Partito democratico lo facesse si renderebbe conto che il partito è l’unico, in Italia, a vivere su una faglia, sulla Fosse delle Marianne della politica.
Società aperta o società chiusa? Questo è il dilemma.
Fratelli d’Italia, Lega, Movimento 5 Stelle, estrema sinistra (quella di Fratoianni, per capirci) dicono società chiusa, che significa semplicemente ritenere che, anziché essere portatrice di grandi opportunità e grandi sogni, la globalizzazione porti solo grandi rischi.
Dall’altra parte, Azione, Italia Viva, Più Europa dicono, tutti e convintamente, società aperta. Aperta all’Europa, al mondo, alle opportunità, al progresso.
Forza Italia, che non è un partito scalabile, che è un partito-azienda alla stregua di un’impresa ha giù subito la sua diaspora: qualcuno è andato di qui (da Lega o Fratelli d’Italia) e qualcuno è andato di lì (in Azione o in Italia Viva).
Rimane il Pd, fermo nella sua incapacità di prendere una decisione e colpevole di aver perso agibilità politica, che è quella caratteristica che permette ad un partito, anche se all’opposizione, di dettare l’agenda, di stabilire di cosa si parla e di cosa no, di cosa finisce sulle prime pagine dei giornali e cosa no.
Giorgio Gori l’ha detto chiaramente: “se vince Elly Schlein, io lascio il partito”.
Farebbe bene perché non sarebbe più il suo ma uno che punta a mettere in discussione, per bocca di molti suoi esponenti, il “turbocapitalismo, il neoliberismo, l’individualismo”.
Come se, in Italia, questi termini godessero di ampio consenso e buona salute.
Dunque, che fare? Non c’è più nessun futuro per il Pd?
In Europa, molti partiti di sinistra vivono e stanno vivendo le medesime tribolazioni, strette tra la morsa di un populismo di sinistra – come quello dei 5Stelle – che se li ingurgita ed una visione centrista che non piace alla sempre troppo entusiasta comunista rossa, rosa, arancione.
La verità è che, forse, tra la visione contestataria e idealista della Schlein ed una eccessivamente pragmatica e apparentemente tecnocratica di Bonaccini c’è altro.
O, almeno, potrebbe esserci.
Qualcosa che scaldi i cuori delle masse popolari ma che non provenga direttamente da Marte; qualcosa che parli al mondo degli “ultimi” ma che non sappia di patetico o ipocrita; qualcosa che sia, al contempo, razionalmente utile e simbolicamente appassionante.
Se il Pd vuole davvero cambiare se stesso parli di questo, al congresso. E non del PaDel.
