Elezioni del 1963: l’apertura a sinistra

di Pierre De Filippo-

Di apertura a sinistra si discuteva ormai da anni, almeno da quando Fanfani era diventato segretario della Dc e Gronchi Presidente della Repubblica, ma i tempi all’epoca erano molto più dilatati e la cortina di ferro, ancora presente in Europa, rendeva tutto più complesso.

Oltretutto, il protagonismo di Gronchi, sia in politica estera che interna, faceva sì che il ruolo di inquilino del Quirinale assumesse tutt’altra importanza, tutt’altro peso rispetto al passato.

Era stato proprio lui a gestire l’operazione Tambroni nel 1960: uomo della sinistra Dc, Tambroni era stato individuato come Capo del Governo e mandato alle Camere in avanscoperta. Aveva ottenuto una maggioranza striminzita peraltro coi voti del MSI, dei postfascisti: qualcosa di inaccettabile. Ma aveva resistito.

Quando, in estate, aveva concesso proprio ai missini di tenere il loro congresso a Genova, città medaglia d’oro al valore civile, era successo il putiferio e l’Italia era tornata sull’orlo della guerra civile.

Come troppo spesso accade nel nostro Paese, è un evento drammatico o, per meglio dire, tragicomico a forzare la mano e a affrettare i tempi.

Per rispondere all’antipatico affaire Tambroni, Fanfani vara il suo terzo governo, che questa volta può contare sull’astensione del Partito socialista, che torna nell’area della maggioranza parlamentare dopo quasi vent’anni.

Il perno, la parola d’ordine di questo nuovo esecutivo è programmazione economica, il giusto costrutto, anche linguistico, per dire che sì, il Governo sarebbe stato interventista in economia ma che, a scanso di equivoci, la libera iniziativa privata sarebbe stata ampiamente garantita.

Sono gli anni in cui Pasquale Saraceno e Ugo La Malfa prospettano la nazionalizzazione dell’energia elettrica, la riforma della scuola media, l’istituzione del servizio sanitario nazionale e delle regioni, la redazione di specifici piani urbanistici comunali, la modifica del diritto di famiglia.

È l’Italia che cambia. Per ora solo sulla carta, visto che la maggior parte di queste indicazioni troverà seguito solo negli anni a seguire.

E per compensare – vedete quanto sottili fossero gli equilibri politici dell’epoca – il drastico spostamento dell’agenda politica verso il sociale, al Quirinale – dopo il regno di Gronchi – la Dc aveva mandato Antonio Segni, un conservatore, uomo della destra democristiana.

È così che si arriva a varare, con le elezioni del 1963, la quarta legislatura: chi si aspetta che questa seconda fase della nostra storia repubblicana, quella dell’apertura a sinistra, venga benedetta dalle urne, resta deluso.

Il ceto medio è preoccupato, teme che “programmazione economica” possa significare qualsiasi cosa e che, soprattutto, i socialisti tornino ad essere ciò che sono sempre stati fino a quel momento: amici spassionati di Mosca, anche se col ditino alzato.

Chi ne approfitta e ci guadagna è il Partito liberale, fino a quel momento marginale nel nostro sistema partitico, ma che rappresenta agli occhi di tutti l’argine liberista – quello predicato da Einaudi – ed il più valido contraltare alla programmazione.

Il 7% che ottiene sarà il miglior risultato della sua storia, figlio delle contingenze del momento e del caso.

Un risultato importante quanto inutile, come pure quello del Partito comunista. Il percorso è tracciato, la strada è segnata, indietro non si torna: Aldo Moro, che della Dc è l’ideologo, sa che occorre ampliare l’area della legittimità a governare anche ai socialisti e che non può essere un estemporaneo risultato elettorale a modificare i piani di una classe dirigente che si sta occupando di dare un futuro all’Italia.

Il centrosinistra dell’epoca era il Draghi di oggi: la meta alla quale ambire.

Ieri ci si riuscì. E oggi?

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