Elezioni del 1958: verso la società di massa
di Pierre De Filippo-
La morte di De Gasperi, nel 1954, aveva lasciato la Democrazia cristiana orfana del suo uomo più rappresentativo e si affidava ad un uomo che, sotto tutti i punti di vista, era il suo opposto: l’aretino Amintore Fanfani.
Fanfani aveva idee profondamente diverse, soprattutto in ambito economico, rispetto a quelle del suo predecessore: liberista, austero, accorto ai conti il primo, interventista, statalista e con l’occhio rivolto a sinistra il secondo.
Non a caso, nel 1955, a succedere a Luigi Einaudi al Quirinale era stato Giovanni Gronchi, anche lui toscano e anche lui della sinistra Dc.
Ma era la sinistra quella più in fermento: il XX congresso del Partito comunista sovietico aveva lasciato le sue scorie e la figura di Stalin ne era uscita ammaccata, così come l’aurea immacolata del comunismo. I carrarmati sovietici a Budapest nel 1955 avevano imposto ai socialisti di interrompere ogni comunicazione con i comunisti e Nenni aveva preso a guardarsi intorno.
Nella «democrazia bloccata», come l’aveva definita Giorgio Galli, non c’erano grandi alternative oltre a guardare verso Piazza del Gesù.
Il dinamismo nenniano stava dando i suoi frutti, facendo uscire il Psi da un isolamento nel quale era caduto da ormai quindici anni e riprendevano anche i discorsi con Saragat e la sua truppa.
Dopo i primi anni di immobilismo, anche dal punto di vista ordinamentale si erano avute le prime riforme, il cosiddetto disgelo costituzionale: certo, le regioni a statuto ordinario non venivano ancora varate ma, nel frattempo, avevano visto la luce il Consiglio superiore della magistratura, il famoso CNEL (quello che Renzi voleva abbattere, per capirci) e la Corte costituzionale, il cui peso sarebbe cresciuto esponenzialmente nel corso degli anni.
E poi un altro fatto, a suo modo sconvolgente, aveva concorso a modificare gli equilibri: l’elezione al soglio pontificio di Angelo Roncalli, Giovanni XXIII.
Se da Patriarca di Venezia si era mostrato scettico nei confronti della famosa “apertura a sinistra” – cioè ai socialisti – di cui si iniziava a parlare, da pontefice diede prova di grande modernità sostanziale, inaugurando il Concilio Vaticano II e facendo entrare la chiesa nella modernità.
I tanti oppositori all’apertura non aveva ben compreso un punto: il boom economico che il nostro Paese stava vivendo, passato in breve da un’economia prevalentemente agricola a sesta potenza mondiale, necessitava di un ampliamento della base sociale e, di conseguenza, politica: i lavoratori si organizzano, studiano, si formano, rivendicano diritti, minacciano rivendicazioni.
E nessuno si sente più di dargli torto.
Per la Dc vi è anche un’altra motivazione, meno illuminata: il passaggio ad una società industriale – quale l’Italia ormai era diventata – stava distruggendo il suo classico elettorato di riferimento, la società contadina, e dunque doveva aprirsi a quel ceto medio che, come detto, richiedeva solo stabilità e di riforme sociali.
Le elezioni vedono una buona affermazione della Dc, che riguadagna consensi rispetto a cinque anni prima, e del Psi.
Il vento della modernità sembra soffiare forte. E con lui le tante ambiguità che l’Italia continua a portarsi dietro.
