Che fine farà la neutralità finlandese?
di Pierre De Filippo-
Per anni, la posizione della Finlandia è stata un po’ la sineddoche della neutralità internazionale; la finlandizzazione è stata qualcosa di ben diverso rispetto alla storica indifferenza con la quale la Svizzera s’approcciava a tutto ciò che succedeva all’esterno del proprio territorio.
La Finlandia, ricordiamolo perché è importante, confina con la Russia per una lunghissima striscia del suo territorio e, in periodo di Guerra fredda, quel confine era un po’ quello tra due mondi, diversi e inconciliabili.
Ora la Finlandia, insieme alla vicina scandinava Svezia, chiede a gran voce l’adesione alla Nato, passando da Paese superpartes a membro della più importante comunità internazionale.
Lo vogliono le loro due leader, Sanna Marin e Magdalena Andersson – sintomo, anch’esso della modernità dei Paesi nordici – che, a chiare lettere, lo hanno affermato in conferenza stampa ed in seno al consesso europeo.
Pronta è arrivata la risposta del sultano di Ankara Erdogan – la Turchia è la seconda potenza militare della Nato – secondo cui non è proprio il caso che i due Paesi scandinavi entrino nel Patto atlantico. Il motivo? Perché a Helsinki e Stoccolma impererebbero i membri del Pkk, terroristi del partito curdo al quale il presidente turco da anni dà la caccia.
È ironico, se non fosse per quel retrogusto amaro, che Erdogan – le cui carceri sono piene di giornalisti ed avversari politici – metta in discussione il livello di democrazia del Nord Europa ma, verrebbe da dire, che la situazione sia grave ma mai seria, come diceva Ennio Flaiano, non vale solo per l’Italia. Fortunatamente.
Una cosa va detta con chiarezza: Finlandia e Svezia non sono l’Ucraina. Sono due democrazie mature, due Paesi stabili, nei quali i più fondamentali diritti personali vengono garantiti e, soprattutto, rispetto ai quali la Russia non può in alcun modo avanzare alcuna pretesa.
Se per l’ingresso, questo il senso, dell’Ucraina nella Ue è giusto aspettare, in questo caso starà solo alla autodeterminazione di Helsinki e Stoccolma decidere.
In pomeriggio, inoltre, Putin ha sentito al telefono il Cancelliere tedesco Olaf Scholz.
Scholz avrebbe detto allo zar russo di “smetterla di dire che a Kiev ci sono i nazisti”, una vera e propria baggianata, e di “iniziare a discutere seriamente di cessate il fuoco ed di accordi di pace”.
Il ruolo della Germania in questa guerra è, però, abbastanza ambiguo e si avverte tangibilmente l’assenza della mano pesante della signora Merkel.
Dal gasdotto Nord Stream 2, che avrebbe dovuto collegare le due nazioni e che tanto aveva fatto arrabbiare Kiev – poi Scholz ha interrotto il progetto – al niet del Presidente della Repubblica Steinmeier in Ucraina, reo, secondo Zelensky, di essere troppo vicino a Putin, fino alla dipendenza energetica e alimentare di Berlino nei confronti del Cremlino, chi esce con le ossa rotte da questa contesa è certamente Scholz, che invece aveva proprio bisogno di rinsaldare la sua posizione dopo vent’anni di merkelismo.
Ma l’Europa continua ad essere divisa sul sesto pacchetto di sanzioni a Mosca. Il tema vero è: che fare col petrolio? L’Ungheria di Orbàn, silenzioso sodale di Putin, s’oppone a questa decisione, spingendo per sanzioni più blande e che, dice ancora, non mettano in difficoltà i Paesi che le impongono.
Di parere opposto la Polonia – insieme all’Ungheria nel fronte di Visegrad e nelle procedure di infrazione per non aver rispettato lo stato di diritto – che vorrebbe colpire Mosca il più possibile, punendola forse per tutti i mali che le ha inflitto durante la sua storia.
Anche qui, è certo, si troverà una mediazione.
Rimane un’unica verità, che è quella che sottolineava Draghi da Washington: la Russia non sta vincendo la guerra e, checché ne dica qualcuno in Italia e nel governo, è necessario che l’Ucraina resista per sopravvivere.
Usi le armi europee per difendersi e non avrà di che preoccuparsi.
