Quale Resistenza?
-di Pierre De Filippo-
Si approssima il 25 aprile e, con esso, la marea di polemiche che, negli ultimi anni, hanno condito questa importante ricorrenza.
Cosa ha significato, per noi, la resistenza? Chi può in maniera legittima appiccicarsi addosso la medaglietta di partigiano e chi, invece, è solo uno che tardivamente è salito sul carro del vincitore? E poi, ci sono resistenze degne d’essere vissute ed altre no? Di serie b?
L’invasor è tale ma con dei distinguo? E, se sì, quali?
In questi giorni, il tema è assurto nuovamente agli onori delle cronache perché Gianfranco Pagliarulo, presidente dell’Anpi, l’Associazione nazionale partigiani d’Italia, ci ha tenuto a dire che sì, forse, boh, chissà, quella ucraina non può essere tranquillamente definita una “resistenza”, che il quali nazista Zelensky farebbe meglio a lasciare perdere il Donbass, Mariupol, la Crimea e tutto il resto, che in questo modo sì che salverebbe davvero la sua gente.
Non resistendo.
Perché delle due l’una: o resisti o ti salvi, nella logica pagliaruliana. Che potrebbe essere oggetto di discussione serie e approfondita se Pagliarulo non rappresentasse i partigiani, che la resistenza – loro, non lui – l’hanno fatta davvero.
Tutti poco resistenti con le resistenze degli altri, verrebbe da dire.
E poi lui, l’ormai celeberrimo Alessandro Orsini, che da ferventissimo antifascista – d’altronde, chi a parole non lo è? – ci ha informato del fatto che suo nonno sotto il fascismo ha avuto una vita immaginifica.
Anche mio nonno ha conosciuto il fascismo, la guerra e la distruzione ma, fino alla fine, raccontava commosso quei giorni di paura e sofferenza. Questione di prospettive, evidentemente.
Se Sparta piange però…
Che senso ha mettere il cappello su una ricorrenza che, invece, dovrebbe essere di tutti. La partigianeria, certo, è l’emblema di una logica contrapposta: la mia parte contro la parte dell’altro. Ciò che i partigianini di oggi, figli e nipoti di quelli veri, non colgono, offuscati da quella superiorità morale che credono di avere e che, invece, è andata a farsi benedire da quel dì, è che le due parti, quelle contrapposte, non erano la sinistra contro la destra ma i democratici contro gli antidemocratici. L’unica distinzione sulla quale si fonda e dalla quale è nata la nostra costituzione.
Il 25 aprile non è, dunque, un vessillo di pochi intimi ma una ricorrenza nazionale per un Paese che ha conosciuto un prima ed un dopo. Un dopo piano di ombre, di ambiguità, di contraddizioni. Ma un dopo che consente agli Orsini, ai Pagliarulo e a qualche altro ben pensante di potere pacificamente dire ciò che pensa, ciò che il proprio cervello concepisce.
Ci sarà la bandiera della Nato? Non credo sia quello il punto. Ci sarà, come sempre, quella della Palestina. E qui è opportuno che ciascuno faccia le proprie valutazioni.
La questione vera è un’altra: ci sono dei casi – e una pacifista convinta come Emma Bonino lo diceva già rispetto alla guerra in Jugoslavia – in cui l’unico modo per ottenere la pace è fare la guerra o, perlomeno, evitare che l’aggredito cada sotto la violenza dell’aggressore senza colpo ferire. Quanto poi sia organizzato e forte l’aggressore lo possiamo discutere, vista l’inadeguatezza che Mosca sta manifestando.
Gli ucraini devono resistere, senza se e senza ma.
E, con loro, anche noi. Ai pacifisti ideologici, ai guerrafondai a prescindere, ai vorrei ma non posso, agli illusi e agli ipocriti. Ma, soprattutto, ai benpensanti come Orsini e Pagliarulo.
