Dalla parte giusta della barricata

-di Pierre De Filippo-

Raccontare una guerra, a parte che probabilmente nessuno si aspettava di farlo nuovamente nell’anno di grazia 2022, è cosa semplice e complessa allo stesso tempo.

È semplice perché le guerre, per loro natura, tendono a seguire un certo copione: scoppi, esplosioni, bombardamenti, morti e feriti, sangue, fumo e dolore. Ma anche alterne fortune, ribaltamenti di fronte, battaglie vinte e battaglie perse.

Una stanca quanto orrenda routine.

Raccontare una guerra è anche cosa complessa per più ragioni: in primo luogo, verificare le notizie è tutt’altro che facile, tutt’altro che agevole. In un primo momento, ad esempio, pareva che nel teatro di Mariupol fossero morte oltre mille persone; si è poi scoperto che, fortunatamente, il bunker interrato ha retto ai colpi e alle deflagrazioni e di morti non ce ne dovrebbe essere nemmeno uno.

Un miracolo.

Ma ciò testimonia quanto sia difficile “portare il segno” di volta in volta.

Raccontare una guerra è cosa complessa che perché si tende, purtroppo, a scadere nel retorico e nel banale: siamo dispiaciuti, amareggiati, ciò a cui stiamo assistendo è drammatico, spaventoso, ci devasta l’anima e le bombe – come le tigri del Maragià – sono sempre di più e sempre più forti anche se non si riesce a contarle né a sentirle.

E allora quando la cronaca non è più indispensabile, perché niente aggiunge e niente toglie a tutto ciò che già conosciamo, deve subentrare la riflessione.

La riflessione, ad esempio, sulle parole che vengono usate, sui simboli che vengono sacralizzati, sulla retorica. Sulla politica.

Scrive oggi un bel tweet Nicola Piovani: “c’è un tempo per tutto. C’è un tempo per tacere e uno per parlare. C’è un tempo per i distinguo e un tempo per la lotta. C’è un tempo per ricordare le colpe della Nato e uno per aiutare un popolo di resistenti contro un tiranno invasore”.

Nel tennis direbbe gioco-partita-incontro.

Perché Piovani sintetizza e, al tempo stesso, cestina la posizione che deve avere chi vuole stare al di qua della barricata, dalla parte giusta, e la posizione di chi della barricata vuole stare al di là, dalla parte sbagliata, quella dei mille distinguo.

C’è un tempo per tutto: ha ragione. E ora, più che quello delle parole, è il tempo del silenzio e dell’azione perché il popolo ucraino non può essere lasciato solo nelle mani di un “tiranno invasore”. Cosa abbia fatto, in passato, la Nato lo discuteremo; cosa avrebbero fatto gli Stati Uniti se il Messico fosse diventato comunista – nel 2022, poi? – lo discuteremo.

Ma questo non è il momento.

C’è, però, qualche certezza: qualche mese fa, Gabriel Boric vinceva le elezioni in Cile. Il giovane neo presidente non ha mai fatto mistero delle sue estremiste posizioni politiche che si tingono di rosso intenso. Ma il Cile non è stato certo invaso.

Castillo, il Presidente peruviano, si definisce un “marxista”. Eppure è lì, placido.

Lula, in Brasile, veleggia al primo posto nei sondaggi e si appresta a tornare ad esserne il Presidente. Ha avuto alterne fortune, certo, ma non è ipotizzabile che Rio venga distrutta dalle bombe se il vecchio sindacalista dovesse vincere le elezioni.

Tutto ciò per un motivo semplice: il Muro è caduto, la Cortina di ferro è crollata, la Guerra fredda è finita. Sono queste le basi rispetto alle quali il ragionamento di chi vuole paragonare le mele con le pere non sta in piedi. Te lo insegnano alla prima lezione di Storia alle elementari: guai a non tener conto del contesto, ai fattori contingenti, ai tempi che cambiano.

Peccato che qualcuno lo dimentichi ancora. Noi, intanto, nonostante le minacce più o meno velate e le allusioni pericolose di Putin e i suoi, facciamo bene a rimanere dalla parte giusta della barricata, che è quella dell’Ucraina perché è quella della libertà, della autodeterminazione dei popoli e dello stato di diritto.

 

https://creativecommons.org/licenses/by/2.0

 

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