“Carmela”, la modernità e classicità di Sergio Bruni
-di Giuseppe Esposito-
Capita talvolta di sottovalutare alcune figure, soprattutto in campo artistico, vuoi per un innato pregiudizio, vuoi perché esse si son trovate ad operare in periodi di transizione in cui nulla pareva essere più come prima e nulla aveva ancora trovato un suo nuovo equilibrio. Esse sono state, quindi, travolte da quella incertezza caratteristica dei periodi di trapasso. Succede poi, talvolta, che col passare del tempo gli antichi pregiudizi si affievoliscono e si riesce a guardare all’opera di un certo autore con occhi nuovi, quasi una riscoperta.
A me è accaduto con un artista napoletano che pure ha segnato un epoca. Ma si trattava appunto di un’epoca di cerniera tra una storia oramai conclusa ed una nuova era che ancora non si era ben precisata. Parlo di Sergio Bruni, artista napoletano vissuto nel momento in cui la grande tradizione della canzone classica napoletana si era esaurita ed una forma nuova non era ancora nata. Erano i decenni seguiti alla fine del secondo conflitto mondiale, quello in cui si teneva ancora il Festival della Canzone Napoletana ed i cui stilemi avevano qualcosa di stereotipato, un modo di esprimersi di maniera.
Quell’epoca è durata per almeno due decenni e per osservare una sorta di rinascita della canzone napoletana abbiamo dovuto attendere la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta. Ciò non toglie che negli anni Cinquanta alcuni brani prodotti si staccassero nettamente dalla generale mediocrità. Fu il caso di pezzi come “Anema e core”, “’Na voce ‘na chitarra e ‘o poco ‘e luna”, “Accarezzame” per non parlare poi della famosissima “Malafemmena” di Totò. Ma il rinnovamento giunse con la comparsa sulle scene di Pino Daniele, di Enzo Gragnaniello, di Edoardo De Crescenzo o di Edoardo Bennato e James Senese.
In quei primi decenni del secondo dopoguerra Sergio Bruni, che aveva iniziato la sua carriera a metà dei Quaranta, sebbene stesse mettendo a punto un suo personalissimo stile, ancora non riusciva ad emergere dalla marea artisti alquanto mediocri.
A partire dei primi anni Settanta iniziò una collaborazione col poeta Salvatore Palomba, che si rivelò assai fruttuosa. Ma debbo confessare che in quegli anni, assai disamorato per la corrente produzione napoletana, continuai ancora a snobbare la produzione di Sergio Bruni. Erano del resto gli anni in cui la canzone anglosassone invadeva le nostre scene e quindi si era distratti rispetto a quanto avveniva in casa nostra.
Qualche anno più tardi mi capitò invece di riascoltare casualmente l’interpretazione di Sergio Bruni di una canzone nata dalla collaborazione con Salvatore Palomba. La canzone era “Carmela” e confesso che fu per me una folgorazione, una vera e propria scoperta. Una canzone che sembrava venire da lontano, dall’epoca d’oro della canzone napoletana ma che era invece stata composta solo nel 1976.
Il testo della canzone si presta ad una doppia interpretazione. Riporto i versi di Palomba, perché rileggendoli ognuno potrà avvertire in essi una tensione poetica, paragonabile a quella presente nelle canzoni classiche i cui versi erano stati scritti da autori del calibro di Salvatore Di Giacomo, Libero Bovio o Ferdinando Russo.
Carmela
Stu vico niro nun fernesce maie
E pure ‘o sole passe e se ne fuie
Ma tu stai llà, tu rosa, preta e stella:
Carmela.
E chiagne sulo si nisciuno vede
E strille sulo si nisciuno sente
Ma nun è acqua ‘o sanghe dint’’e vene
Carmela.
Si ll’ammore è ‘o cuntrario d’’a morte
E tu ‘o ssaie
Si dimane è sultanto speranza
E tu ‘o ssaie.
Nun me può fa aspettà fino a dimane:
astrigneme int’’e braccia pe stasera
Carmela, Carmé.
Come si può rilevare il testo sebbene più asciutto pare un grido lacerante che suscita in noi una profonda vibrazione. Ma esso ha una doppia chiave di lettura. La prima e più immediata è quella che le parole sembrano quelle di un innamorato che brama le braccia della donna amata, la quale come in una situazione da canzone classica tende a negarsi, esasperando la pena dello spasimante.
Ma altri hanno visto qualcosa di diverso, Carmela, per alcuni, è Napoli. E forse proprio la Napoli degli anni Settanta e Ottanta. Una città che usciva delusa da quello che era stato definito il “rinascimento napoletano”, sotto l’amministrazione di Bassolino sindaco. Nulla invece era cambiato, quel rinascimento si era rivelato illusorio e la città si ritrovava con tutti i problemi che l’assillano da quando è stata privata con la violenza, del suo ruolo di capitale, senza che abbia mai potuto ritagliarsene un altro degno del suo passato, nell’Italia unificata.
La parte che più evoca questa immagine della città ferita è quella in cui il poeta afferma: “Ma tu staie llà, tu rosa, preta e stella”, accostando ad elementi attribuiti solitamente alla donna quali la rosa e la stella un elemento, quella preta, ossia la pietra che richiama alla dura realtà della vita, quella vita che si trascina nei vicoli bui dai quali persino il sole rifugge. L’immagine è pregante ed allude alla disperazione di quei tanti che trascinano la propria vita senza una speranza di riscatto.
Carmela è insomma l’anima di Napoli, intrappolata nel buie delle sue viscere, quelle stesse viscere che già Matilde Serao, ai suoi tempi aveva definito “il ventre di Napoli”.
Carmela è insomma una canzone moderna che ha tutti i crismi della classicità più affascinante. Il critico Goffredo Fofi si spinse ad affermare che ”Carmela” è la canzone che funge da spartiacque tra la canzone napoletana vecchia e quella nuova. Si presenta sotto una forma classica ma con un contenuto che è ancora e sempre attuale. Sin dal suo apparire il brano fu considerato come parte della tradizione classica ed anche la sua diffusione non fu affidata ai mezzi moderni di diffusione, avvenne alla maniera antica grazie agli ultimi posteggiatori napoletani, figure destinate anch’esse ad una vicina estinzione.
Molto ci sarebbe ancora da dire sull’autore ed interprete Sergio Bruni, basti comunque, dire che Bruni ebbe la capacità di cambiare più volte nel corso della sua quasi cinquantennale carriera e senza mai rinnegare la tradizione seppe adeguarsi al presente che mutava.
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