Donne di Napoli: Amelia Faraone, la regina delle “sciantose”

di Giuseppe Esposito

Napoli fin de siécle, il XIX ovviamente, ha perso la sua dignità di capitale di un Regno, da non molto tempo e molti sono coloro che, smaltita la sbornia risorgimentale e l’entusiasmo per una Unità rivelatasi essere nient’altro che annessione al Piemonte, rimpiangono gli antichi fasti. Rimpiangono il tempo in cui Napoli era al centro dell’Europa, una capitale che gareggiava con Parigi e Londra. Era la capitale di un regno ammirata, studiata, invidiata e odiata dalla grandi potenza Francia e Inghilterra che si adoperarono molto per la sua rovina e sostennero le mire dei Savoia a capo di un regno oberato dai debiti e prossimo al default, tanto per utilizzare un termine prelevato giustamente dall’inglese.

La nostra città era uscita da quell’avventura piuttosto malconcia ed avvilita, oltre depredata. Eppure quella Napoli seppe risollevarsi e tornare a rivaleggiare con le più grandi capitali in campo artistico ed anche in quello scientifico. Non fu facile per la città, declassata da capitale a capoluogo, reinventarsi, eppure i napoletani di allora ci riuscirono e riportarono la loro città ad essere una delle capitali culturali dell’Europa.

In quei tempi prese a spirare un’aria nuova su tutto il continente, un’aria nutrita di ottimismo, di fiducia nel progresso e di un’arte nuova e diversa. Era l’epoca in cui si veniva affermando il Liberty, che qui da noi ebbe una coniugazione tutt’affatto particolare. Per le vie di Napoli spirava quella che Salvatore Di Giacomo definì in una delle  sue poesie “n’aria e primmavera”.

Napoli divenne una città moderna con viali ampi, bei palazzi e negozi alla moda, ma, soprattutto, conobbe una stagione culturale e artistica di grande effervescenza. Sorsero nuovi circoli culturali, case editrici, librerie e nacque, ad opera di Eduardo Scarfoglio e Matilde Serao “IL MATTINO”, uno dei quotidiani più importanti d’Italia. Nacquero avanguardie artistiche e si affermarono anche le arti cosiddette minori. Nacque la Scuola del Corallo di Torre del Greco i cui prodotti furono richiesti in ogni parte del mondo.

E quasi a dimostrare la riacquistata voglia e la gioia di vivere nacquero i “Café chantant” e la canzone napoletana conobbe la sua stagione più esaltante.

E col café chantant arrivarono le “sciantose”. Termine derivato dal francese chanteuse, che vuol dire cantante, ma con una accezione assai particolare, ché le sciantose non erano semplicemente delle cantanti, ma dei personaggi capaci di scatenare gli entusiasmi del pubblico di allora.

La loro reputazione, nella società di allora, piuttosto bigotta, non era certo delle migliori ed esse avevano la cattiva fama di rovinafamiglie. Fama che, per alcune di esse, non fu immeritata. Eppure quando sulle scene comparve Amelia Faraone, seppe in parte sfatare quei pregiudizi e si affermò quasi da subito come protagonista assoluta del café chantant, per le sue doti artistiche, per la sua professionalità, non scevra da una sensualità innata e  fuori dal comune, tanto da far perdere la testa a un elevato numero di uomini.

Il cafè chantant era però nato in Francia da più d’una ventina d’anni, ma il primo locale del genere a Napoli, il Salone Margherita, nacque, ad opera dei fratelli Marino, solamente un anno dopo il più famoso dei café chantant parigini, il Moulin Rouge, aperto nel 1889. Il locale napoletano aprì i battenti nella Galleria Umberto, la cui inaugurazione ufficiale si tenne il 19 novembre di quell’anno.

Il Salone Margherita fu l’antesignano di tutti gli altri café chantant napoletani e per sottolineare il suo legame con il suo modello parigino decise di adottare come lingua ufficiale il francese. In francese erano scritti i suoi manifesti, in un francese alquanto maccheronico si esprimevano i camerieri e le vedettes che calcavano il palcoscenico, sebbene nate a Napoli dintorni, adottavano nomi d’arte francesi, come Blanche de Marcy o Gabrielle Bressard. Erano tutte dotate di grande bellezza, anche se talvolta, dal punto di vista artistico piuttosto carenti, ma esercitavano un fascino indescrivibile sul pubblico maschile.

Poi su quel palco comparve Amelia Faraone. Aveva ale spalle un passato già piuttosto travagliato, nonostante la giovane età e pare avesse già una figlia illegittima avuta dalla relazione con un giovane ufficiale di stanza a Capua e da cui era stata poi abbandonata. Tuttavia ella seppe sempre tenere nell’ombra la sua vita privata, durante tutta la sua carriera che fu piuttosto breve, per sua scelta. Cominciò ad esibirsi in numeri ad inizio serata, che avevano il compito di scaldare il pubblico, ma nel giro di poco meno di un anno scalò ogni gerarchia artistica divenendo la preferita del pubblico.

Era nata nel quartiere San Ferdinando nel 1871, ed al suo esordio aveva poco più di vent’anni quando cominciò ad esibirsi in duetti con alcuni degli artisti che andavano per la maggiore, in particolare coi macchiettisti Nicola Maldacea e Berardo Cantalamessa.

A creare il suo personaggio di artista poliedrica e con mille sfaccettature della sua femminilità, furono anche i testi che interpretava, per il pubblico del Salone Margherita prima e poi nelle sue tournée in giro per l’Europa, quali ad esempio “’O cuntrattino”, di Ferdinando Russo o piuttosto “Jette ‘o bbeleno!”, un brano che ottenne un grandissimo successo e fu ripreso anche da altri artisti napoletani.

Per lei  Salvatore Di Giacomo scrisse “Lariulì” musicata da Costa e molti altri autori famosi del tempo non mancarono di arricchire il suo repertorio. Ma la canzone del suo esordio era stata “Pacchianella” di De Curtis e Valente. Molte delle sue esibizioni erano veri e propri brani di teatro, confezionati esclusivamente per lei e che le permettevano di valorizzare le sue doti di femminilità e di passionalità. Dei duetti con Maldacea basti ricordare “Pozzo fa ‘o prevete.” E “’A signora cura”.

In una di quelle scenette, con la sua aria ingenua ed ammiccante, parlando di se stessa così si esprimeva: “Quann’è asciuta ‘a Faraona! Butto, burro chella llà! Quant’è bbona! Quant’è bbona! M’ ‘a vulesse cunfessà!”

Canzoni come questa ed altre simili crearono intorno alla sciantosa un clima particolare un’aura che seduceva tutto il pubblico maschile di quell’Italietta crispina. La folla dei suoi spasimanti cresceva a dismisura ed una sera, dopo lo spettacolo le si presentò un ufficiale piemontese a chiederle di uscire a cena con lui. La risposta che si ebbe lo lasciò alquanto perplesso: “I non esco con i giovanotti se non c’è anche mammà”!”

L’ufficiale si ritirò in buon ordine, sebbene poco convinto di quella scusa e un po’ risentito per il rifiuto. Quell’ufficiale era Vittorio Emanuele principe di Napoli che più tardi, quando qualcuno del suo entourage gli sussurrò all’orecchio che la bella Amelia usciva spesso con bellissimi giovanotti e , di certo, senza mammà a farle da chaperon, montò su tutte le furie e cominciò a sfidare a duello tutti gli spasimanti della sciantosa, pur sapendo che non avrebbe potuto, per questioni di rango incrociare le armi con essi. Al suo posto avrebbero dovuto scendere sul terreno i generali al suo servizio. Per fortuna la diplomazia della casa reale scese in campo e quei duelli furono evitati. D’altro canto il 29 luglio del 1900 l’anarchico Bresci pose fine ai giorni del re Umberto I e suo figlio, Vittorio Emanuele fu chiamato ad altri e più alti impegni, e costretto ad abbandonare le sue velleità da scapolo e le avventure galanti, anche se non del tutto.

Amelia invece proseguì la sua carriera che la portò a mietere successi nei più importanti teatri d’Europa. Giunta però all’età di 33 anni, nel 1904 decise di ritirarsi dalle scene per potersi godere gli affetti familiari. Il rimpianto per quell’abbandono fu universale e Ugo Ricci, titolare della rubrica “Mosconi”, su IL MATTINO di Napoli le scrisse una sorta di elegia in cui esaltava la sua bellezza “serena e matronale”. Quei versi suonavano così:

La venustà di Amelia Faraone

serena e matronale

turbava il principale

ed il garzone,

Gerace ed Erricone,

l’agente e l’assessore comunal.

 

Era una donna quell’Amelia nata

Per soggiogare un re di buona pasta

Che nessuna scipita cicalata

Le avrebbe mai troncata

Con un “Basta!”

Che l’avrebbe difesa e secondata

Che le avrebbe concesso, l’imprudente,

persino di cantare

“Casta Diva”.

….

Amelia visse serenamente in famiglia, in quell’anonimato che aveva scelto e si spense il 19 dicembre 1929.

 

 

 

Giuseppe Esposito

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