Trattativa Stato-mafia: trent’anni di informazioni fuorvianti
-di Pierre De Filippo-
È arrivata, categorica come solo una sentenza sa essere, la risposta della Corta d’Appello di Palermo, la quale aveva l’arduo compito di stabilire se e in che misure quella famosa Trattativa tra lo Stato e la mafia vi fosse stata e se al centro vi fosse davvero il famoso “papello” che Totò Riina disse di aver sottoposto alla politica come cartina di tornasole, come do ut des, come lista di desiderata.
La Corte d’Appello è stata chiara nel dire che sì, vi fu dialogo con determinati esponenti della mafia – primo fra tutti quel Vito Ciancimino, sindaco di Palermo e, soprattutto, assessore ai Lavori Pubblici nel periodo del cosiddetto sacco – ma che il tutto iniziava e finiva nel normale iter investigativo. Era un avvicinamento funzionale ad acquisire informazioni e null’altro.
Il presidente della Corte d’Appello, Angelo Pellino, ha voluto essere chiaro sin dall’inizio: “non faremo processi alla storia”.
La verità è che a questo siamo abituati: per anni, una certa magistratura manettara – leggasi Di Matteo, Ingroia, Scarpinato – accompagnata da un certo giornalismo altrettanto manettaro – leggasi Travaglio e accoliti (se ci fate caso, poi, i riferimenti politici di entrambe le parti sono gli stessi) – ci avevano descritto la trattativa non solo come certamente avvenuta ma anche con dei toni e delle ricostruzioni che facevano presagire una sorta di collusione, connivenza tra due mondi. Stato e mafia avrebbero “lavorato insieme”, fianco a fianco, gomito a gomito, al fine di giungere ad un risultato conveniente per entrambi.
E invece? Invece, la sentenza ha assolto i vertici del ROS Mario Mori, Giuseppe De Donno, Antonio Subranni, e quel Marcello Dell’Utri che è stato considerato, da sempre, come la mano di Berlusconi nelle faccende di Cosa nostra. In precedenza, erano stati già assolti Calogero Mannino, al tempo ministro per il Mezzogiorno, e Nicola Mancino, che sedeva agli Interni.
Un quadro accusatorio, quello orchestrato e ipotizzato da Di Matteo e Ingroia, che ha iniziato a fare acqua da tutte le parti e che, man mano che l’indagine proseguiva, incontrava sempre maggiori difficoltà di tenuta.
Cosa veniva ipotizzato? Veniva ipotizzato che, nei primi anni Novanta, lo Stato – con gli uomini dei Servizi a fare da intermediari tra mafia e politica – avesse avvicinato Cosa nostra, chiedendole cosa volesse pur di far finire quegli anni di bombe, distruzione e paura. La mafia avrebbe quindi risposto col famoso papello, una serie di richieste che andavano dall’abrogazione del carcere duro, il regime di 41bis alla revisione delle sentenze del maxiprocesso, dalla revisione della Rognoni-La Torre alla chiusura delle supercarceri.
Niente di tutto ciò si è avuto. Nulla. Su che basi, dunque, questo accordo fosse stato trovato non è dato sapere.
Nel Paese dei misteri e dei complotti sono bastate le fantasiose tesi di un uomo, Massimo Ciancimino, figlio di Vito, per dare vita ad un mito che è stato sfatato solo trent’anni dopo. Ciancimino ha sempre dichiarato, e con una certa determinazione, che suo padre fu il terminale di quegli incontri e che fu a lui, per via del suo immenso potere sull’isola e sui mafiosi, che lo Stato si rivolse per risolvere definitivamente il problema delle bombe.
Lui, il più potente tra i potenti, il più mafioso tra i politici, il più politico tra i mafiosi.
Mario Mori, dirigente del ROS, ha sempre dichiarato di aver parlato con Ciancimino padre perché “non era la solita fonte da quattro soldi”. Era un uomo ben informato e che poteva fornire una interpretazione diversa e, forse, più calzante di ciò che stava accadendo dentro Cosa nostra all’epoca.
Solo per fini investigativi. E null’altro.
Questa sentenza della Corte d’Appello dovrà essere, evidentemente, confermata in Cassazione ma dice già tanto. Dice già tanto perché, con l’assoluzione nel 2019 di Calogero Mannino, è venuto meno l’uomo al quale Nino Di Matteo imputava di essere la vera mente della trattativa.
Dice tanto perché – diciamolo con chiarezza – l’assoluzione di Dell’Utri, che è surrettiziamente anche l’assoluzione di Berlusconi, chiude (si spera) trent’anni di processi politici e politicizzati; dice tanto perché ristabilisce il corretto ordine di marcia: gli inquirenti indagano, e noi confidiamo nella loro buona fede, e i giudicanti giudicano sulla base di ciò che hanno a disposizione, di ciò che vedono. È lo stato di diritto, che si contrappone allo stato della barbarie che è quello dei manettari.
Ingroia e Travaglio hanno già detto che, in questo modo, i mafiosi sono stati trattati come “capri espiatori” e che l’unica preoccupazione dei giudici era che lo Stato ne uscisse bene, dimostrando di non avere per nulla a cuore il rispetto per i ruoli e le istituzioni.
