Al vaglio la Riforma Cartabia

di Pierre De Filippo-

Giovedì 8 luglio, dopo tanto taglia e cuci il Consiglio dei Ministri ha finalmente licenziato all’unanimità il testo proposto dalla guardasigilli Cartabia in relazione alla riforma del processo penale. Un risultato importante, tanto più vista la delicatezza del tema, che aveva opposto le forze politiche ed aveva partorito, figli dei precedenti esecutivi, dei compromessi al ribasso e delle previsioni in alcuni casi cervellotiche.

Vi chiedo di sostenere con lealtà in Parlamento questo provvedimento” ha detto il Premier Draghi, conscio della delicatezza di un tema così scivoloso.

Il vero tema, quello più divisivo perché più ideologicamente trattato è stato, come era facile immaginare, quello della prescrizione. La Ministra ha ritenuto indispensabile “correggere gli squilibri della legge Bonafede” che prevedeva la sospensione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio e sine die, indipendentemente se il giudizio fosse stato di condanna o di assoluzione.

L’Italia, da questo punto di vista, è, come spesso ci accade, nel bel mezzo di un paradosso: siamo il Paese col livello più elevato di prescrizioni – per molteplici motivi – ed anche il Paese maggiormente punito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per violazione della ragionevole durata del processo.

Ergo, qualcosa va fatto, e va fatto subito e va fatto bene. Senza tergiversare.

La Riforma Cartabia lascia inalterata la sospensione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado (come per la Bonafede) ma individua tempi certi per l’Appello e la Cassazione – i termini di improcedibilità – rispettivamente di tre anni e di un anno.

Per i reati particolarmente gravi o per procedimenti altamente complessi, la finestra di amplia di un ulteriore anno in Appello e di sei mesi in Cassazione.

Un compromesso ma se è vero, come è vero, che le riforme sono come l’antico vaso che va portato in salvo, allora va bene anche così.

Un secondo tema contenuto nella riforma è quello che regolamenta le indagini preliminari e l’accesso all’appello.

La riforma punta a limitare i tempi delle indagini preliminari, che avranno tempi certi – sei mesi, un anno e diciotto mesi, in base alla gravità del fatto – e saranno sottoposte all’attento controllo del GIP.

Il PM potrà chiedere solo una volta una proroga di sei mesi e dovrà giungere alla richiesta di rinvio a giudizio solo in presenza diuna ragionevole previsione di condanna in capo all’indagato.

Rispetto alla disciplina sull’Appello, dalla Commissione ministeriale per la riforma del processo penale era giunta la richiesta di “prevedere l’inappellabilità delle sentenze di condanna o di proscioglimento da parte del PM”, un passaggio troppo ostico per essere accettato. La Cartabia ha, allora, virato su questo principio: l’appellabilità rimane un cardine del sistema ma incontra limiti, stabiliti da sentenze della Cassazione, “per difetto di motivi”, quando cioè non sono chiari i fondamenti dell’impugnazione.

La riforma tocca anche il tema della obbligatorietà dell’azione penale, disciplinata costituzionalmente dall’art. 112, e quello – di estremo rilievo – relativo alla cosiddetta “giustizia riparativa”.

L’obbligatorietà formalmente rimane in vigore, a garanzia della imparzialità del Terzo Potere, sostanzialmente viene svuotata dalla previsione che sia il Parlamento ad indicare quei reati che, a suo dire, necessitano di essere combattuti in maniera prioritaria e sui quali, in pratica, deve concentrarsi l’attività delle Procure. Un passo in avanti, sicuramente figlio di un compromesso, di un principio validissimo solo sulla carta ma che, nella realtà, si è spesso scontrato con l’amplissima autodeterminazione sulla quale le procure potevano contare.

Rispetto alla giustizia riparativala possibilità di “espiare” il proprio peccato in maniera alternativa alle solite tipologie di pena – la riforma amplia la possibilità di ricorrere, ad esempio, alla messa in prova, ovvero essere impiegato in lavori socialmente utili in casi di reati di piccola entità.

Rimane ancora da affrontare – ma verrà fatto entro l’anno perché “non possiamo rinnovare l’organo di autogoverno con questa regole” – la riforma del CSM, che tanto è stato, suo malgrado, sulle prime pagine dei giornali negli ultimi tempi.

La Commissione Luciani, che da tempo sta lavorando sul tema, propone il voto singolo trasferibile, una sorta di classifica tra magistrati, assegnando più preferenze e arginando, in questo modo, il fenomeno correntizio che ha causato all’istituzione una profonda crisi di legittimità.

Certo, il M5S ha, comprensibilmente, storto un po’ il muso; il suo (forse) leader in pectore, Giuseppe Conte, ha detto chiaramente che con l’arretramento della disciplina sulla prescrizione “si danneggia lo stato di diritto”, mentre per Bonafede “la norma rischia di trasformarsi in una falcidia processuale che produce isole di impunità”.

La riforma arriverà in aula il 23 luglio e lì si vedrà se la tanto auspicata lealtà che Draghi ha richiesto rispettata o se, viceversa, torneremo a tessere nuovamente la tela come Penelope.

“File:Marta Cartabia (Palazzo della Consulta, Roma) – 2.jpg” by Dsch2000 is licensed under CC BY-SA 4.0

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