10 Giugno 1924. In memoria di Giacomo Matteotti
-Pierre De Filippo-
La memoria è cosa importante in questa vita; è giusto avere memoria di chi – col suo esempio, col suo coraggio – ha lasciato dietro di sé un insegnamento, è nobile ricordare i martiri, è doveroso onorare i sacrifici.
Ancora di più, è egoisticamente utile avere memoria perché, se prendiamo per buoni i corsi e i ricorsi vichiani, la memoria ci permette di non sbagliare o, almeno, dovrebbe indicarci cosa è conveniente fare e cosa è sconveniente fare.
La memoria può essere un monito.
Giacomo Matteotti è – prima ancora di essere un uomo, un politico, un parlamentare – un esempio di tutto ciò: un maledetto testardo, un incosciente coraggioso amante della sua patria, un oltranzista del rigore morale, un radicale.
V’è, però, un grande rischio che si annida dietro i miti, i martiri, i simboli: che tutto si riduca ad una lapide, una targa commemorativa, ad uno spiazzo utile solo per aiutare i turisti perché “per andare da Cartier bisogna svoltare l’angolo con via Matteotti”. E questo è un rischio al quale bisogna, necessariamente, porre rimedio perché Matteotti – al pari di tanti altri – è un simbolo per ciò che ha fatto, per ciò che è stato. È un simbolo per la sua vita, non solo per la sua morte.
“Uccidete pure me, ma l’idea che è in me non la ucciderete mai”.
Qual era l’idea in Matteotti? Era quella della democrazia, la quale è davvero come l’aria, se ne sente il bisogno solo quando inizia a mancare.
E questa assenza dovette sentirla forte e chiara Giacomo, più e meglio di tanti altri, subito dopo le elezioni del 1924, che incoronavano definitivamente Benito Mussolini – il Duce – a padre padrone dell’Italia.
La sentì così bene che, come i migliori profeti, si preoccupò di avvisare i suoi, affinché fossero pronti: “Io il mio discorso l’ho fatto. Ora preparate voi il discorso funebre per me”.
Mussolini l’aveva già pronto e non si lasciò impressionare: un commando fascista lo sequestrò il pomeriggio del 10 giugno 1924 – novantasette anni fa – e ben presto lo uccise, prima di sbarazzarsi del corpo in un campo.
Con il consueto eloquio dell’epoca, il 3 gennaio 1925 alla Camera, Benito Mussolini tenne un celebre discorso nel quale, in sintesi, assumeva su di sé ogni responsabilità “politica, morale e storica di quanto è avvenuto”, perché “se il Fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere”.
Un messaggio – si badi bene – non di pentimento tardivo o di scrupolo morale. Un potente, potentissimo messaggio politico rivolto a maggioranza e opposizione: sappiate che – voleva intendere – chiunque si porrà contro di me farà questa fine.
Due sono gli aspetti dietro la vicenda Matteotti che, a mio parere, meritano d’essere ricordati o chiariti: il primo è la partigianeria, che ha influenzato troppa parte della nostra storia, troppa parte del nostro essere.
Matteotti, a differenza di altri, ha avuto la capacità – che gli è derivata dalla potenza del suo coraggio – di essere “semplicemente” espressione di democrazia e di libertà, non un vessillo di questa o quella parte politica, non un feticcio da custodire nelle sezioni d’un solo partito.
Giacomo Matteotti è e deve continuare ad essere, innanzitutto, un simbolo di unità nazionale, di amore patrio, di lotta del bene contro il male; perché anche questo ci insegna Matteotti: al netto della convenienza di alcune tendenze ipocritamente ondivaghe, c’è sempre un bene, che è tale in termini assoluti, che è giusto di per sé, che è autentico.
Il secondo aspetto caratteristico, che pure ha caratterizzato alcuni personaggi della vita politica italiana, è l’intransigenza.
Matteotti è stato, in primo luogo, un intransigente: non ha avallato, non s’è lasciato ammaliare, acquistare, ingolosire dalla convenienza dell’affiliazione fascista; d’altronde, uno chiamato Tempesta per il suo vigore e la sua determinazione non avrebbe potuto scendere a patti, a compromessi.
Quella di Matteotti è stata anche l’intransigenza di Aldo Moro, del generale Dalla Chiesa, di Giorgio Ambrosoli, di Falcone e Borsellino.
Ed è mortificante notare come, in Italia, l’intransigenza abbia un costo così alto!
Cosa ci resta di Giacomo Matteotti a quasi cento anni dalla sua morte?
Facile, la sua vita.
Una vita così lineare, così coerente, così pacificamente onesta da essere rivoluzionaria.
Così schierata da renderlo trasversale, universale.
Perché ha rincorso il bene e non ha dovuto spiegare il perché.
