Blocco dei licenziamenti: le parti sociali contro Orlando
di Pierre De Filippo-
In principio fu il Decreto Cura Italia a prevedere, a decorrere dal 17 marzo 2020 e per cinque mesi, il blocco dei licenziamenti; le imprese, in sintesi, non avrebbero potuto licenziare dipendenti per giustificato motivo oggettivo, cioè per problemi economico-organizzativi, e attuare licenziamenti collettivi.
Fu la prima, primissima risposta alle conseguenze economiche della pandemia che già iniziavano a fare capolino.
Dopodiché, tramite i vari decreti Ristori dell’autunno del 2020, il governo guidato da Giuseppe Conte ha prorogato questo stop fino al 31 marzo 2021.
Col passaggio di testimone, Draghi ha sostituito Conte a Palazzo Chigi mentre Andrea Orlando ha rimpiazzato la grillina Nunzia Catalfo sulla poltrona del Lavoro ma la linea è rimasta la stessa: il decreto “Sostegni” ha prorogato – non senza qualche perplessità interpretativa – il blocco sino al 30 giugno 2021.
Arriviamo, dunque, all’attualità: martedì 25 maggio, è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il cosiddetto decreto Sostegni bis che, tra i tanti temi disciplinati, è tornato sulla questione dei licenziamenti, ancora portandosi dietro importanti strascichi di caos.
In conferenza stampa, il ministro Orlando aveva detto a chiare lettere che le aziende che avessero fatto richiesta della “cassa integrazione Covid” entro giugno, avrebbero visto procrastinarsi la loro impossibilità a licenziare fino al 28 agosto. Una sorta di do ut des.
A questa presa di posizione – proferita, ricordiamolo, fianco a fianco al Presidente Draghi – hanno fatto seguito le furenti dichiarazioni della sottosegretaria al Lavoro, la leghista Tiziana Nisini, secondo la quale il ministro avrebbe “rotto un patto con le aziende”, introducendo la norma “a sorpresa” dopo che al mondo imprenditoriale era stata garantita la possibilità di licenziare da fine giugno.
Effettivamente, note di Palazzo Chigi che hanno anticipato l’effettiva uscita del decreto hanno annunciato la cancellazione della norma di proroga come “esito di un percorso di approfondimento tecnico sulla base delle proposte del ministro Orlando”.
Certo, ci piacerebbe che, per una volta, gli approfondimenti tecnici venissero posti in essere prima delle conferenze stampa e che i testi dei decreti uscissero solo una volta, una volta per tutte, dopo aver percorso tutti i canali ufficiali che servono affinché abbiano valore, e non per mezzo di PDF trafugati e modificati “col favore delle tenebre”.
Ma, a questo livello di razionalità, purtroppo, non siamo ancora arrivati.
Dunque, per capirci, come potranno comportarsi le aziende e cosa potranno aspettarsi i lavoratori? Succederà, essenzialmente, che con la fine della “cassa integrazione Covid”, prevista per la fine di giugno, le imprese che non vorranno avvalersi della “cassa integrazione ordinaria” – ricordiamo, finanziata attraverso la fiscalità generale, le tasse – potranno iniziare ad inviare le prime lettere di licenziamento; le imprese che, invece, se ne avvarranno, non potranno imporre licenziamenti almeno fino al 31 dicembre di quest’anno.
E per le aziende che non possono avvalersi della Cassa Ordinaria? Non potranno licenziare fino al 31 ottobre quelle aziende che possono usufruire della Cassa integrazione in deroga, dell’assegno ordinario e della CISOA, la cassa specificamente prevista per il settore agricolo.
Il senso è chiaro: le imprese aiutate non possono licenziare, quelle che decidono di rinunciare agli aiuti sì; un po’ come “due zampe cattivi, quattro zampe buoni”. Restano, però, legittimi dubbi e legittime perplessità, soprattutto per le ondivaghe previsioni nei decreti. In realtà, però, il punto pare essere un altro ed è politico prima ancora che giuridico.
Dopo la clamorosa smentita di Nisini nei confronti del suo ministro, è intervenuto con veemenza Carlo Bonomi, presidente di Confindustria, che ha definito il comportamento di Orlando “un’imboscata […] dopo l’accordo per il 30 giugno ci siamo trovati di fronte a un cambio di metodo inaspettato e inaccettabile”.
Bonomi ha solo anticipato sul tempo la sua controparte, il segretario della CGIL Maurizio Landini che, da par suo, ha tuonato dicendo che ad essere sbagliato è “il messaggio che viene dato” perché “non vogliamo trovarci di fronte a migliaia di licenziamenti: non è il momento di aprire ulteriori fratture sociali”.
Tutto nella norma, tutto coerente col giuoco delle parti.
E la politica? La politica non fa eccezione, con la coalizione di centro-sinistra pronta a sostenere la posizione di Orlando e, financo, quella dei lavoratori, e la coalizione di centro-destra a strizzare l’occhio al proprio elettorato di riferimento, quel mondo industriale che riversa ancora le proprie speranze soprattutto nella Lega e nel ministro dello Sviluppo economico Giorgetti.
Starà a Draghi fare da mediatore, da arbitro in questa contesa. E ci riuscirà a patto che…
A patto che imporrà a tutti i partiti politici di non porre bandierine sulla sorte di 500.000 mila lavoratori che potrebbero vedere la propria vita cambiare in un baleno.
Ad onor di cronaca, va anche detto che qualcuno – e mi riferisco a Carlo Calenda, leader di Azione – aveva ipotizzato un’ipotesi alternativa al “o tutto o niente”: sblocchi dei licenziamenti segmentati, frazionati per settore, in maniera tale da consentire ai ministri competenti ed alle parti sociali di ridurre difficoltà e tempi del ricollocamento.
In sintesi, è più facile rioccupare quindicimila persone per volta che non cinquecentomila tutte insieme.
Una proposta razionale, forse troppo per essere accettata!
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