Il male oscuro della giustizia italiana

-di Pierre De Filippo-

Solitamente, il male oscuro è lei, la depressione, quel misto di ansia, svilimento personale, assenza di prospettive, rabbia; il male oscuro di cui soffre la nostra giustizia ha, invece, i toni foschi del potere occulto, come l’avrebbe definito Bobbio, un potere reale proprio perché poco tangibile.

Trame, inganni, interessi superiori, lassismo da posto fisso e spirito di corpo: di questo si nutre il suo male oscuro, che finisce per essere un male per la società tutta, la quale – se perde fiducia per chi, dell’ordine, dovrebbe essere il guardiano – smette di credere nel diritto, nelle regole, nella civile convivenza e si sente legittimata a vivere d’espedienti, qualunque essi siano.

Tra le raccomandazioni che, annualmente, l’Unione Europea ci fa gentilmente pervenire, la giustizia è, spesso, al primo posto: in media, un nostro procedimento civile si conclude in otto anni, in Germania in due anni e mezzo; il penale è, invece, spesso schiavo di una contrapposizione – culturale e giurisprudenziale – dalla quale non riesce ad uscire: garantismo o giustizialismo. La nostra Costituzione dice garantismo, la nostra frustrazione dice giustizialismo.

Tra Lodi, proroghe, deroghe, sconti e revisioni, la confusione attorno al nostro sistema giudiziario regna sovrana. E, però, non ci sono solo fattori esterni che incidono sull’efficienza a creare dei problemi, ci sono principalmente fattori interni che incidono sulla credibilità a creare dei problemi. È questo il male oscuro della nostra giustizia.

Porto tre esempi, tre storie, tre vicende entrata, a modo loro, nella storia del nostro Paese.

Il primo si riferisce, evidentemente, alle tristi vicende del “caso Palamara”.

Quello di Luca Palamara è, spiace dirlo, un caso geneticamente italiano di smania per il potere, manovrismo e gestione privatistica della cosa pubblica. Un sistema ormai consolidato di nomine – una specie di ufficio di collocamento alternativo – che seguiva la deprecabile logica delle correnti, difficili da gestire in politica, figuriamoci lì dove proprio non dovrebbero starci, nella magistratura, in luogo del merito e della trasparenza.

Lo stesso Consiglio Superiore della Magistratura, che ha estromesso Palamara, rinnegandolo in pubblica piazza, è più che responsabile della cattiva gestione del mondo della giustizia, è – per quanto forte possa essere l’asserzione – correo poiché negligente e razionalmente spregiudicato quando c’è da salvare la categoria.

Se l’organo di autogoverno non governa, non prende decisioni, non corregge, non punisce, finisce per essere solo un sindacato. E di altri sindacati davvero non si sente la necessità.

La seconda vicenda è, invece, più fresca e necessita di qualche spiegazione in più: ha come protagonista principale l’avvocato Piero Amara, intrallazziere di professione e già assurto agli onori delle cronache giudiziarie. Cosa è successo, in estrema sintesi? In due circostanze che lo riguardavano personalmente – l’accusa di aver messo su un sistema insieme al collega Calafiore e all’allora PM di Siracusa Giancarlo Longo, attraverso il quale pilotare sentenze e quella di essere l’artefice di attività di depistaggio nei confronti della Procura di Milano, che indagava sul paventato caso di corruzione internazionale nei confronti dell’ENI, di cui il siciliano era uno dei legali – Amara avrebbe iniziato a collaborare con gli inquirenti, svelando l’esistenza di una loggia massonica, Ungheria, che avrebbe visto la partecipazione di magistrati, avvocati e servizi segreti.

Informato di questa circostanza, il PM milanese Storari avrebbe chiesto al Procuratore capo di Milano, Francesco Greco, l’immediata iscrizione nel registro degli indagati di alcuni “fratelli” (secondo le dichiarazioni di Amara vi figurerebbero anche l’ex ministra Paola Severino, l’ex numero uno di Confindustria Emma Marcegaglia e l’ex Presidente del tribunale di Milano Livia Pomodoro. Tutte e tre smentiscono) ma che Greco avrebbe preso tempo, volendo – a parere di Storari – “insabbiare la cosa”.

Si era, così, rivolto a Piercamillo Davigo, membro del CSM, affinché egli verificasse la veridicità di ciò che Amara sosteneva; Davigo avrebbe condiviso queste informazioni con David Ermini, vicepresidente del CSM, e con Giovanni Salvi, primo procuratore della Cassazione.

Forse, però, non solo con loro. La sua ex segretaria, Marcella Contrafatto, avrebbe inviato i verbali degli interrogatori di Amara a redazioni di giornali, accompagnati da una lettera in cui denunciava, essenzialmente, l’inerzia di Francesco Greco e la sua colpevole inattività.

Una situazione paradossale che, al netto della piega che prenderà da qui ai prossimi sviluppi, evidenzia ancora una volta come beghe interne alle procure, rapporti personali di simpatia o di antipatia e smania di protagonismo determinino il corso della giustizia più di prove, analisi e indagini.

La terza vicenda è, anche, la più pruriginosa per la rilevanza del suo protagonista, Silvio Berlusconi.

È di questi giorni la notizia che la CEDU – la Corte Europea dei diritti dell’uomo – ha chiesto allo Stato italiano se “Silvio Berlusconi ha beneficiato di una procedura dinanzi ad un tribunale indipendente, imparziale e costituito per legge? Ha avuto diritto ad un processo equo? Ho disposto del tempo necessario alla preparazione della sua difesa?”

Chiarimenti ritenuti necessario.

La storia è paradossale: Amedeo Franco, relatore in Cassazione del processo Berlusconi, pare sia entrato in Camera di consiglio con un registratore nelle tasche al fine di dimostrare ciò che, in seguito, ammise e cioè che, a parer suo, quella non era una giuria ma “un plotone d’esecuzione” con a capo il giudice Antonio Esposito, presidente del Collegio, i cui motivi di astio nei confronti di Berlusconi erano dovuti a motivi personali.

Nonostante ciò, Franco – che è morto nel 2019 – alla fine firmò quella sentenza e Silvio Berlusconi, da un punto di vista politico, decadde da senatore nel 2013, attraverso l’applicazione della legge Severino.

Tre storie che hanno, come si può ben intendere, un comune denominatore: esprimono tutte una macabra tendenza, una viziosa condotta, un male oscuro, l’idea cioè che chi applica la legge sia, al tempo stesso, al di sopra della legge; che le leggi ai nemici si applicano e agli amici si interpretano; che lo spirito di parte debba prevalere sull’interessa collettivo.

È, questo, uno dei punti dai quali ripartire: investire in capitale umano, formare una nuova classe di giudici e magistrati che davvero creda nell’indispensabile funzione che è chiamata ad assolvere.

Pierre De Filippo Pierre De Filippo

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