Il racconto della domenica di Giuseppe Esposito
Nihil novum sub sole-
Ero lì, seduto l’altra sera in terrazza, immerso nei pensieri che riempiono talvolta questi giorni anonimi, tutti uguali e pieni di noia. Giorni in cui, dopo tanto tempo trascorso in preda al timore, affiora un barlume di speranza ed il futuro appare meno fosco. Mi confortava un’aria profumata dal gelsomino e dalla malvarosa, quand’ecco che mi arrivano all’orecchio le parole di una vecchia canzone:
Si sta’ voce te sceta int’’a nuttata,
mentre t’astrigne ‘o sposo tuoie vicino …
stette scetata, si vuò stà scetata,
ma fa vedè ca duorme a suonno chino …
Nun ghi’ vicino ‘e llastre per fa ‘a spia,
pecché nun può sbaglià sta’ voce è ‘a mia …
La voce è nientedimeno che quella del grande tenore Franco Corelli ed, irrefrenabile, mi prende la voglia di cantare a voce spiegata. Ma io sono stonato come una campana e mi contengo. Accompagno Corelli a fior di labbra, ma sento dentro una gran voglia di esplodere, di gridare. Questo è infatti il modo in cui ti prende la canzone di Napoli, visceralmente e più ancora se poi, è lì che sei nato e quei luoghi te li sei portati dentro per sempre, anche se da molto tempo vivi altrove.
Mi faccio trascinare dall’emozione senza opporre resistenza alcuna e, nel frattempo, mi viene da pensare che, in fondo, tutto quello che accade è già accaduto; niente di nuovo sotto il sole. E soprattutto le pene d’amore sono sempre le stesse. In ogni tempo, da quelle di Catullo a quelle cantate ora con le parole di Edoardo Nicolardi. Eppure, ciò non ci sottrae al dolore e quello cantato dal poeta l’ho conosciuto anch’io e me lo porto dentro. Le parole di Nicolardi ravvivano in me quella pena lontana, ma me la rendono quasi dolce. È l’effetto del tempo che, scorrendo ed esaurendosi ci rende lieve anche l’antico dolore.
E la vicenda, cui Nicolardi si riferisce nella sua poesia, messa in musica poi da Ernesto De Curtis, nell’ormai remoto 1904, pare sia, autenticamente autobiografica.
Edoardo Nicolardi, futuro giornalista e poeta, nacque il 28 febbraio 1878 a Napoli, in una famiglia aperta alla cultura. Suo padre era infatti amministratore de IL MATTINO, il quotidiano fondato da Eduardo Scarfoglio e Matilde Serao. Iniziò già all’età di soli 17 anni a collaborare con il nuovo giornale fondato e diretto dalla Serao, IL GIORNO e con il settimanale satirico MONSIGNOR PERRELLI.
Gli accadde però, intorno ai suoi vent’anni, di innamorarsi perdutamente di una sua casigliana di nome Anna Rossi e si presentò quindi dal padre di lei, don Gennaro Rossi, ricco commerciante di cavalli da corsa, per chiedere la mano della ragazza. Il risultato fu che don Gennaro lo mise alla porta. Per la figlia don Gennaro aveva altri progetti e non certo quello di darla in moglie ad uno squattrinato, aspirante poeta. Egli aveva infatti già promesso Anna, ad un suo ricchissimo cliente, certo Pompeo Corbera e, dopo poco tempo le nozze, secondo quanto stabilito, furono celebrate.
Ma in quel caso il dio degli innamorati non abbandonò Edoardo. Infatti il novello sposo, sebbene ricchissimo, aveva la veneranda età di quasi 75 anni. Età, per quel tempo davvero molto avanzata, infatti poco tempo dopo il matrimonio il buon Pompeo passò a miglior vita, lasciando vedova la consolabile moglie. I due giovani innamorati poterono così ricongiungersi e sposarsi. Il loro matrimonio fu lungo e felice e da esso nacquero ben otto figli. Edoardo Nicolardi si spense il 26 febbraio 1954. Per uno strano scherzo del destino, quasi una nemesi aveva 76 anni, in pratica l’età del suo antico rivale.
Quanto al parallelismo della sua storia con la mia, quella cioè di un amore contrastato, esso si ferma solo alla prima parte. Mentre infatti la morte del rivale permise al poeta di impalmare l’amata Anna, il mio antico amore finì con un abbandono che, ancor oggi, talora mi rattrista. Quel ricordo mi appare talvolta come una storia ascoltata da qualcun altro e che mi infonde una malinconia profonda. Il tempo ha depositato su di essa un velo di oblio che mi permette di intravedere quei giorni, come avvolti da una nebbia pietosa che conferisce ad essi la consistenza di una fiaba triste.