La storia della “caffettiera”, icona dell’ Italian Style
Dare una definizione alla bevanda più conosciuta e apprezzata dagli italiani è particolarmente difficile ma, di sicuro, il caffè, amatissimo soprattutto in area partenopea, è parte integrante dell’identità nazionale, accomunando la stragrande maggioranza degli abitanti in un insieme di rituali e tradizioni ad esso legati. La storia del caffè trova le sue origini in tempi assai lontani. Già utilizzato nel medioevo in alcune aree dell’Africa centrale come l’Etiopia o nella Penisola arabica (nello Yemen), si diffuse, poi, nell’area della Persia e più ad ovest in Turchia. Solo intorno al XVII secolo il caffè iniziò a diffondersi in Italia soprattutto nelle aree di Venezia (grazie anche ai suoi grandi commerci con il medio-oriente), Firenze e Roma. Dopo alcuni tentativi progettuali assistiamo, all’inizio del XIX secolo, alla realizzazione dei primi prototipi di caffettiere da parte di due stagnini parigini Hadrot e Senè, mentre qualche anno dopo, nel 1819, il parigino Jean-Louis Morize progettò la prima caffettiera in rame ad inversione del filtro, ovvero per percolazione, estraendo la bevanda senza ebollizione, da lui stesso descritta: “Cafetiére d’une forme particuliére a doble filtre, destinée à faire le cafè sans éboulition et sans évaporisation” (una specie di antesignana della classica caffettiera napoletana).

Nel 1884, in occasione dell’Expo Generale di Torino (al Valentino) venne presentata per la prima volta al pubblico la macchina per fare il caffè istantaneo, meglio conosciuto come caffè espresso.

Progettata da un noto imprenditore locale, proprietario di alberghi e bar a Torino, Angelo Moriondo, era, tuttavia, una macchina non certamente piccola e anche particolarmente ingombrante. Un cronista dell’epoca così la descriveva: “È una curiosissima macchina a spostamento con cui si fanno trecento tazze di caffè a vapore in un’ora (proprio a vapore). Si compone di un cilindro o caldaia verticale che contiene 150 litri d’acqua la quale vien messa in ebollizione da fiammelle di gas sotto il cilindro, e per mezzo del vapore con una complicazione curiosissima di congegni si fanno in pochi minuti 10 tazze di caffè in una volta o, una sola tazza se volete…”. A Napoli la bevanda iniziò ad essere apprezzata solo alla metà del XIX secolo nei numerosi caffè Letterari e Politici, ma fu un vero amore indissolubile per la gustosa bevanda, alla quale sono state dedicate parole, riflessioni e pensieri legandola per sempre all’immaginario collettivo della città partenopea.


Sempre alla fine del XIX secolo si diffuse la “caffettiera napoletana”, simile alla caffettiera del Morize ma differente per materiale, optando per l’alluminio in sostituzione del rame. La caffettiera napoletana aveva, inoltre, al suo interno, una sorta di capsula bucherellata, posta alla base dell’apparecchio, in cui si racchiudeva il caffè macinato. Una volta giunta ad ebollizione, l’acqua all’interno della cuccumella (così chiamata a Napoli), veniva fatta percolare attraverso la capsula rovesciando delicatamente la macchina stessa e ottenendo, così, la bevanda nel giro di pochi minuti. L’apparizione della caffettiera nell’arte pittorica la ritroviamo, alla fine del XIX secolo, periodo di maggiore diffusione del caffè nelle capitali europee, in alcuni quadri di artisti francesi come nel dipinto a olio di Paul Cezanne del 1895 il “Donna con caffettiera” di stampo post-impressionistico o nel dipinto di Henri Matisse, il maggiore esponente della corrente artistica dei Fauves, realizzato nel 1898 e intitolato “Frutta e caffettiera”. Alla caffettiera napoletana è legato il famoso monologo (forse la scena più bella) della famosa commedia “Questi fantasmi” di Eduardo De Filippo: è la esaltazione del tipico rito legato alla quotidianità, quello del caffè, dove l’interlocutore Pasquale Lojacono parlando col suo dirimpettaio, dice: “Vedete quanto poco ci vuole per rendere felice un uomo: una tazzina di caffè presa tranquillamente qui, fuori…con un simpatico dirimpettaio”.

Nel 1933 un imprenditore di Crusinallo (paese del verbano, nell’alto Piemonte), Alfonso Bialetti, rivoluziona definitivamente il rito del caffè con l’introduzione nel mercato dell’ingegnosa macchina della Moka Express Bialetti, molto probabilmente ispirata al funzionamento della macchina per lavare il bucato (la lisciva), molto in uso all’inizio del XIX secolo (una sorta di grande pentolone all’interno del quale si ponevano i panni con il sapone, con un tubo in acciaio al centro, bucherellato nella sua sommità, che aveva il compito di distribuire l’acqua portata ad ebollizione all’interno dello stesso recipiente).

L’apparecchio è costituito da tre parti: il bollitore, il filtro e il raccoglitore. Una volta posto sul fuoco, l’acqua presente nell’ebollitore si riscalda e, aumentando di pressione, passa attraverso il filtro (fase dell’estrazione) per poi raggiungere il raccoglitore. La Moka, dal design veramente unico nel suo genere, non ebbe gran successo se non dopo la seconda guerra mondiale grazie al figlio di Alfonso, Renato Bialetti (morto 5 anni fa). Quest’ultimo, grazie anche al contributo della televisione, da poco presente nelle case degli italiani, soprattutto attraverso il carosello degli anni ’50-’60-’70 (la prima pubblicità della caffettiera è del 1958) e l’apporto estroso del disegnatore Paul Campani che realizzò per la moka l’iconico omino coi baffi (raffigurazione caricaturale dello stesso imprenditore Renato Bialetti), riuscì nell’intento di diffondere il prodotto nell’uso domestico quotidiano.

Si ricordano slogan intramontabili come il famoso “Sembra facile fare un buon caffè…ma ci vuole esperienza, cura e la vera Moka Express” o ancora “ Sembra facile fare un regalo utile…ma, per fortuna, c’è la caffettiera Moka Express”. La caffettiera Moka rappresenta una importante “icona” del Made in Italy, esportata e conosciuta in tutto il mondo, alto esempio di Art Deco, che, in virtù del suo originale disegno, è presente anche nella collezione permanente del Triennale Design Museum di Milano e del MoMa di New York.


