Una Olimpiadi da apolidi?

-di Pierre De Filippo-

Il 26 gennaio, a mezza mattinata, il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, dopo aver chiuso il suo ultimo Consiglio dei Ministri, si è recato presso il palazzo del Quirinale per rimettere il suo mandato nelle mani di Sergio Mattarella, il Capo dello Stato.

Pensando al suo ultimo atto politico, è lecito immaginare si trattasse di un decreto arrivato in extremis per rinforzare i ristori per il mondo del lavoro in sofferenza o quello della sanità al collasso.
Niente di tutto ciò: l’ultimo atto del Conte bis ha riguardato l’approvazione di un decreto legge sull’autonomia del CONI, il nostro Comitato Olimpico; cosa che, in un Paese normale, onestamente non si avvertirebbe la necessità di dover ribadire.

Chi aveva attentato alla indipendenza del Coni? Per quale motivo avremmo corso il rischio di essere sanzionati dal CIO, il Comitato Olimpico Internazionale, e di partecipare a Tokio 2020 (poi diventato 2021 causa Covid) senza bandiera e senza inno?
Tutto parte dalla riforma dello sport targata governo gialloverde, con prima firma Giancarlo Giorgetti, alla cui persona era affidata la delega e plenipotenziario della Lega.
La riforma, secondo il CIO, ledeva in alcuni suoi punti la Carta Olimpica – il documento ufficiale che contiene regole e linee guida per l’organizzazione delle Olimpiadi – che prospetta l’assoluta indipendenza ed autonomia dei singoli Comitati Olimpici Nazionali.
Come avveniva ciò ?
Con l’approvazione della Legge di Bilancio 2019, CONI servizi SpA, l’azienda che si occupa di distribuire i finanziamenti statali alle leghe sportive, viene sostituita dalla società pubblica Sport e Salute SpA, la quale agisce “quale struttura operativa per conto dell’autorità di governo, competente in materia di sport”.
Questa società avrebbe gestito circa il 90% dei fondi per lo sport (368 milioni su 408) e, se è vero come è vero che senza soldi non si cantano messe, la struttura complessiva del CONI avrebbe avuto serie difficoltà finanziarie senza l’assenso – che rischiava di diventare potere di controllo, secondo il CIO – da parte del governo.

Per Giovanni Malagò, presidente del CONI, la “riforma è una Via Crucis che si trascina da due anni”. Thomas Bach, presidente del CIO, è chiaro e categorico: finché l’Italia non chiarisce la sua posizione circa l’indipendenza del CONI, non le si potrà concedere di partecipare alle Olimpiadi con i propri colori ed i propri loghi.
Nell’agosto 2019 il decreto legge viene convertito ed in Gazzetta Ufficiale si legge che, tra le funzioni del Ministro competente, ci sono quelle di “indirizzo e vigilanza sul CONI”.
Fioccano i richiami e le lettere ufficiali da parte del CIO, alle quali da Palazzo Chigi preferiscono non rispondere.
I mesi passano e la controversia pare prendere sempre di più le sembianze di uno stucchevole braccio di ferro; il Ministro, che nel frattempo è diventato il grillino Vincenzo Spadafora, garantisce che prenderà provvedimenti ma evita di farlo.
Intanto, la pandemia fa slittare i Giochi di un anno.

Arriviamo ai giorni nostri: le richieste di chiarimento al premier Conte proseguono ma nessuna risposta viene fornita, si cerca un ultimo, disperato accordo ma Malagò rinvia al mittente ogni forma di compromesso.
Il 27 gennaio 2021, il CIO avrebbe discusso il nostro caso, proponendo una definitiva sospensione dei nostri galloni, sanzionando anche la dignità di una Nazione.
Ce ne usciamo, come al solito, per il rotto della cuffia, con l’ultimo atto del Conte bis.
Era davvero necessario questo spettacolo così poco gratificante?

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