Nei versi di Eugenio Lucrezi – è questione di luce.
-di Denata Ndreca-
Son qui nella mattina della sera.
Archi di luce…
Son le mie dita,
È questione di luce…
Si, nei versi di Eugenio Lucrezi, è questione di luce e di ritmo aguzzo. La sua poesia non ci lascia tranquilli. È una confessione che passa dall’autore al lettore.
Eugenio Lucrezi (1952), di famiglia leccese, vive a Napoli. Medico epidemiologo, musicista blues e giornalista, scrive di letteratura e di arte. Ha pubblicato il romanzo Quel dì finiva in due, Manni, Lecce 2000, e alcuni libri di poesia, tra cui Arboraria, Altri termini, Cuma 1989, L’air, Anterem, Verona 2001, Freak & Boecklin (con Marzio Pieri), Morra/Socrate, Napoli 2006, Cantacaruso : LenOnoSong (con Marzio Pieri), La finestra, Lavis 2008, mimetiche, Oèdipus, Salerno 2013, Nimbus, Eureka, Corato 2015, Sapìa, I libri del merlo / Il laboratorio, Nola 2016, Bamboo Blues, Nottetempo, Milano 2018, La canzone del guarracino – ilfilodipartenope, Napoli 2018. Redattore della rivista di letteratura Altri termini, dirige la rivista di poesia Levania. Nel 2017 è stato nominato da Mario Persico Gran Ciambellano e poetapatamusico dell’Institutum Pataphisicum Partenopeium. Componente della giuria tecnica del Premio Napoli dal 2017 e dall’aprile del 2019, cura la “Bottega della poesia” della redazione napoletana del quotidiano La Repubblica.
Poesie da Bamboo Blues, Edizioni Nottetempo, Milano 2018
Non molti mesi dopo ch’ero nato,
moriva Dylan Thomas.
Così gli ho dedicato
un dialoghetto in versi, indelicato.
− Non ci riesco, non posso sopportare
di tradire mia moglie! − tormentando
le mani ad una ad una, come fossero
pale rotanti schiaffi siderali.
Così Dylan gridava centosette
giorni prima di soffocare, ed io,
nato da giorni centosette e dunque
infante, mi sforzavo di strillare:
− Tutto tradisce te, non te ne accorgi?
Sei bell’e morto e non fai che frignare.
Non posso, non ti posso sopportare!
Già puzzi e non ti vedo che risorgi −
Ma tu non mi ascoltavi, quello stupido
pazzo che ancora sei per centosette
giorni non ci fa caso al fantolino.
−Ho tradito mia moglie! − dice il pazzo
che non mi ascolta, ed io non so parlare.
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Son io. Non sumus nos. Non sono stato
a Marco De Gemmis
Nos sumus non. Son io che sono
per rem che incertamente, in gran brillanza,
balugina interposta, in tal maniera
da farsi bella per insussistenza,
per vacanza e ristoro di materia
a un non certo destino destinata.
Son qui nella mattina della sera.
Archi di luce son quanti di passione.
Son le mie dita, di me che non più sono,
se fotografo il tempo, e tanto meno
sumus nos, se non ci sono stato.
È questione di luce. Di profeti
uccisi dal deserto. Di risorti
di cui si è persa traccia. Di non morti
che stanno in fila con grande disciplina.
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14 luglio 2015 (summer song)
Tra la stradina e l’epigrafe dicata
a un suo poeta, sepolto nella polvere
dal tempo e dal profumo dei limoni,
si è formata stanotte, all’improvviso,
la fossa buia che interrompe l’isola.
Procida si librava nel vapore
dell’estate affocata. Il buco, adesso,
la inchioda al sottomare, la riduce
trasformandola in terra. I villeggianti
non sanno se c’è guerra. Gl’isolani
ignorano chi siano i contendenti.
Plutone, se ti affacci, non ha mosso
la sua ruga di ghiaccio. Si deforma,
spasmodica, la sonda. Poi si perde.
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Due falconi islandesi (Two of us)
L’oscuro della roccia
si spegne nel degrado
luminoso del bianco.
Livree che si fronteggiano
esigono in un attimo
la servitù dell’Essere.
Teatrali si congiungono
come fosse un nonnulla
l’aria che li separa.
Gli sguardi si dirigono
morbidamente mobili
salendo dagli artigli.
Carezze pneumatiche
fanno ferme le ossa
nel tumulto dell’aria.