Come da un vecchio baule… c’era una volta il Natale

“Zio Alfonso era “laureato” in Presepi: sapeva tutto sulle tradizioni di Natale, sul primo presepe fatto da San Girolamo nel Quattrocento e su quello realizzato otto secoli dopo da San Francesco. Per lui via San Gregorio Armeno, strada napoletana dove artisti artigiani fabbricano presepi, era un luogo sacro pari a San Pietro”.
                                                                                      (Luciano De Crescenzo)

-di Giuseppe Fernicola –

La frase magica la pronunciava papà “domani tiriamo giù il presepe”. Ed accadeva sempre di sabato perché, l’unico giorno disponibile a quel tempo in cui il week – end non era ancora stato inventato, era la domenica. Si trattava della prima domenica a partire dal 30 novembre, data dell’inizio della novena dell’Immacolata, annunciata festosamente dall’arrivo degli zampognari da Avellino.

Quella domenica mamma non aveva bisogno di tirarci giù dal letto, ci svegliavamo all’alba e ci alzavamo ai primi rumori della casa. – Tiriamo giù il presepe –stava per- prendiamo dal ripostiglio le scatole con i pezzi del presepe dall’ultimo scaffale in alto-. Il ripostiglio era stretto e profondo e gli scaffali coprivano le pareti di destra e sinistra lungo tutta la loro altezza.

Si piazzava al centro la scala, papà saliva fino all’ultimo gradino e porgeva i pacchi a mamma che li trasferiva a me. Io li passavo a mia sorella mentre mio fratello più piccolo immancabilmente piangeva per l’esclusione, ma si sa, la gerarchia è selettiva.

Lo scatolone grande conteneva lo scheletro in legno che avrebbe occupato la parte posteriore del piano di costruzione, poi c’era la scatola con i fogli di una speciale carta ruvida color terra, lo scatolone con le casette e le diverse scatole da scarpe che contenevano i paciulli. La divisione dei paciulli nelle varie scatole seguiva un criterio che ora non ricordo ad eccezione del fatto che Maria, Giuseppe, il bambinello e gli angeli erano insieme: un tentativo, forse, di separare il sacro dal profano.

Tutti erano avvolti in carta velina e poi in carta di giornale per evitare rotture da collisione anche se, in un’altra scatola c’erano pennello, colla ed un sottile filo di ferro che all’occasione papà avrebbe utilizzato per riattaccare arti o incollare piedi o zampe alle loro basi.

La cosa più eccitante per noi ragazzi era –scartare i paciulli- per assaporare la rituale sorpresa della scoperta di un personaggio che avevamo dimenticato o appropriarci a quello che più amavamo per deporlo noi nel suo sito.

Purtroppo per questa emozione dovevamo attendere che tutto fosse pronto, luoghi e paesaggi, a ricevere i personaggi che sarebbero stati deposti secondo le indicazioni di papà ed i suggerimenti di mamma, non sempre in sintonia fra di loro. Naturalmente prima d’aprire i pacchi si era preparata la base che doveva essere a vista, ma non facilmente raggiungibile dai bambini per evitare che mastriassero facendo guai.

A casa nostra il luogo ideale si era individuato nel mobile con ribaltina che occupava la parete destra del tinello. Per prima cosa la ribaltina alleggerita dalle stoviglie buone veniva sollevata, tolta dalla base, appoggiata su due sgabellini  ed affiancata alla parete piccola, a sinistra della porta d’ingresso da cui era stata precedentemente spostata una poltrona che abitualmente accoglieva papà troneggiante, alle nove di sera, dopo Carosello per il totale dominio del lucidissimo Telefunken 21 pollici, in rigoroso bianco e nero ad un canale. Niente paura, però, la poltrona veniva posta davanti alla ribaltina e spostata ogni qualvolta c’era da aprire un’anta per prendere ora dei piatti, a volte dei bicchieri…

La base della cristalliera, la chiamavamo così, veniva spostata quindici, venti centimetri dalla parete così che, sovrapponendovi una tavola tirata fuori dal solito ripostiglio, si aumentava la superficie utile per il presepe. A questo punto si poteva sovrapporre il telaio di legno che in fondo a destra serviva per accogliere, rivestita di cartapesta, la zona montagnosa, sulla parete al fondo la carta azzurra punteggiata di stelle che simulava il cielo.

Poi ancora, carta pesta e sughero per fare colline e vallate e nascondere la pompetta da cui usciva l’acqua del ruscello in riva al quale si piazzavano un pescatore, con regolare canna e tre paparelle nel gesto di immergersi nell’acqua. Nella vallata si disponevano alcune casette, le altre si inerpicavano un po’ dovunque sulle colline, il tavolo dell’osteria con tavernaro, sciacquanti ed avventori, i bancarielli del pescivendolo, del macellaio, del panettiere intento a togliete il pane dal forno e poi l’acquaiuolo, il calzolaio, il fabbro, il venditore di stoffe e quello di vasi, tutti coi loro ferri del mestiere e le loro mercanzie.

Qua e là i pastori del cammino con i doni per il bambinello e Benino il dormiente, i soffianti con zampogne e pifferi, le foritane con i loro cesti, contadini con il loro cavallo villano e Chicchibacco con il suo carro di botti.

E poi ancora la grotta sulla quale si posizionava la stella cometa ed ai lati in alto due angeli sospesi  ed in basso Giuseppe col mantello giallo e Maria con il vestito rosa ed il manto azzurro.

Davanti bue ed asinello a riscaldare una mangiatoia vuota fino alla mezzanotte del ventiquattro, quando posizionavamo il bambinello e recitavamo diligentemente la nostra breve poesiola:

Gesù bambino è nato, gli angeli dal cielo l’han portato nella povera capanna
tra le braccia della mamma. Bello, biondo e ricciolino, benedice ogni bambino, ed ascolta con amore la preghiera del suo cuore.

Davanti ed ai lati, ancora, i paciulli della gloria, putti e cherubini mentre in lontananza lungo un sentiero in attesa dell’epifania, i Re Magi ed il loro corteo. Apriva Baldassarre, il vecchio, sul suo cavallo al passo ed in mano l’oro, seguiva Gaspare il giovane che recava la mirra (che io allora confondevo con la manna misconoscendo tipologia ed utilizzo dell’una e dell’altra) sul cavallo al trotto. Infine, anticipava il corteo di suonatori, schiavoni, mori e georgiani Melchiorre o’ niro che proteggeva l’incenso dallo scalpitìo del suo cavallo.

Papà esprimeva il meglio di se attribuendo ai pastori, secondo professione, sembianze o postura, i nomi di persone che conoscevamo e verso cui la sua ironia era irresistibile.

Così il pifferaio era zì Alfredo il nostro portiere che invece di sorvegliare il palazzo tentava con impegno ma scarso successo di suonare un clarinetto.

La foritana era Adelina la nostra ragazza di casa imbranatella e sognatrice e Chicchibacco era don Vincenzo, il nostro fornitore di vino sfuso di Giovi a cui zio Fausto, per segnalare che il vino che vendeva era di dubbia origine, diceva: il vino di Giovi che se ce lo porti lo trovi.

Il cacciatore era infine il ragionier Valente che millantava grandi abilità venatorie mai confermate.

Mamma ascoltava sorridendo mentre friggeva le palline degli struffoli, salvo fingere di indignarsi quando papà diceva che la Madonna somigliava alla signora Fierro, la moglie del brigadiere dei carabinieri del terzo piano, con quella sua aria da vergine immacolata che mostrava in pubblico, aggiungendo un commento piccante.

L’altro gioco di papà consisteva nel ricevere distrattamente i commenti lusinghieri di chi veniva a farci visita millantando di aver fatto il presepe in fretta, che se avesse avuto tempo avrebbe potuto fare di meglio, ben sapendo che quello era il suo standard.

Nel frattempo man mano che i giorni passavano spostavamo in avanti il corteo fino alla sera del cinque quando i Re Magi, appiedati, si prostravano davanti al Re del ciel…

 

                   

 

 

 

Giuseppe Fernicola